Il 2013 è stato l’anno dei “sovversivi”. O meglio, sovversivo (“disrupter”) è stata una delle parole più alla moda dell’anno. Non immaginate però la disobbedienza civile di Thoreau, di Gandhi o di Martin Luther King. Pensate piuttosto a Steve Jobs o Mark Zuckerberg. Il termine nasce a Silicon Valley e definisce “un imprenditore un po’ spaccone che inventa un nuovo prodotto o un nuovo modo di fare affari che sconvolge il mercato”: distrugge ma in modo creativo, per fare spazio al nuovo.
Basta così, avverte però Edward Luce in un commento sul Financial Times: “Questo brutto neologismo deve scomparire”. Già in ambito tecnologico lo ritiene un termine ingannevole, perché spesso la “vera innovazione nasce dal lavoro di squadra anziché dal colpo di genio solitario”. Quando poi il “culto del disrupter” si è esteso al campo politico, a suo vedere è stata una catastrofe, perché ha esaltato e legittimato personaggi come il politico americano anti-sistema Ted Cruz, idolo dei Tea Party. Tra “precipizio fiscale”, “sequestration” e “shutdown”, si può essere d’accordo con Luce che la politica di Washington di quest’anno sia stata alquanto “sovvertita”, “con ben poco di creativo e di costruttivo”.
Ma allora che fare? Condannare all’oblio il neologismo? Compilare liste di gente competente che lavora dietro le quinte per portare a casa i risultati, anziché di sovvertitori? Viene da chiedersi, poi, se il termine sia davvero così nocivo quando è applicato al mondo della cultura. Nel bilancio di fine anno, molte riviste, tv e quotidiani elencano i maggiori “disrupter”, da Jeff Bezos a Miley Cyrus. E’ davvero una esaltazione della “distruzione fine a se stessa”, oppure uno strumento utile a valutare le rivoluzioni culturali effettivamente in atto?
In effetti promuovere un diverso “sovvertitore” ogni settimana come fa la tv liberal Msnbc è un po’ esagerato: alla fine, come nota l’FT, significa elencare “chiunque faccia notizia”. A fine anno, avendo forse esaurito le idee, Msnbc invita gli spettatori a segnalare via Twitter il momento più sconvolgente del 2013. La rivista Vanity Fair mette al primo posto Jeff Bezos di Amazon e al secondo i “perpetui sperimentatori” Larry Page e Sergey Brin di Google (quest’ultimo ha sovvertito anche il proprio matrimonio, lasciando la moglie Anne Wojcicki per una dipendente 27enne dell’azienda, una mossa in realtà poco originale). Seguono altri 48 personaggi che hanno scosso le fondamenta dei propri settori (spesso quello tecnologico): una lista talmente lunga e onnicomprensiva che porta a chiedersi se sia rimasto qualche reazionario al mondo a difendere lo status quo. A questa domanda la rivista sembra rispondere con una seconda lista di 25 “membri dell’élite” che restano saldamente al vertice: al numero uno c’è Beyoncé (con Jay Z). Ma non andrebbe messa tra i “disrupter” dopo la mossa sorprendente di lanciare il suo ultimo album in esclusiva mondiale online, che l’ha reso il disco venduto più velocemente nella storia di iTunes Store?
Si potrebbe anche essere d’accordo con Forbes, poi, quando elencando le dodici aziende sovversive dell’anno, sceglie come numero 1 il sito di crowdfunding Kickstarter, “il modo più creativo per raccogliere fondi, attraverso le masse” (538 milioni di dollari per 91 mila progetti) e al secondo posto Illumina, una ditta che ha ridotto notevolmente il costo del sequenziamento del Dna (il che ha consentito di diagnosticare malattie rare, sviluppare medicinali contro certi tipi di tumori e identificare la sindrome Down prima della nascita). Meno convincente è invece la spiegazione della rivista sulla differenza tra “sovversivo” e “innovatore”: “Pensa in questi termini. Tutti i sovversivi sono innovatori, ma non tutti gli innovatori sono sovversivi, allo stesso modo in cui un quadrato è un rettangolo ma non tutti i rettangoli sono quadrati. Siete ancora con me?”. Non proprio.
Alla fine anche il New York Times s’è fatto contagiare: ha appena pubblicato un collage (più che una lista) dei disrupters del mondo della cultura, spiegando che il 2013 è stato un anno davvero rivoluzionario: dalla provocatrice Miley Cyrus col suo twerking all’attore Michael B. Jordan che, nel film “Fruitvale Station”, ha interpretato un giovane afroamericano assassinato, alimentando il dibattito sulla razza e le armi in America; dalla trentenne Sheikha Mayassa, sorella dell’attuale emiro del Qatar e patrona delle arti all’attore James Franco proclamato re dei selfie (sono sue le foto in alto) che ne spiega la genesi e professa il suo amore per gli autoscatti in un articolo #daleggere; dai baffi tornati in voga grazie a (o per colpa di) Will Ferrell con la sua nuova commedia Anchormen 2 (infelicemente tradotta in italiano col sottotitolo “Fotti la Notizia”) alla serie tv Orange is the New Black ideata dalla “televisionaria” Jenji Kohan.
Forse “sovversivo” non è il termine più adatto. In fondo, liste come quelle del Times, di Forbes, di Vanity Fairs non sono una gran novità: le abbiamo lette alla fine di ogni anno, solo che magari erano intitolate “Rivoluzionari” oppure “Innovatori” (a meno che, in effetti, non si trattasse di rettangoli ma non di quadrati). Sono termini che l’uso e l’abuso hanno svuotato di significato. E forse anche così si spiega il nuovo culto del
"Siamo inondati dalle immagini di Hollywood e da una visione del mondo filtrata attraverso lo sguardo yankee. Poi vai negli USA e ti accorgi che la realtà è diversa da come gli americani la raccontano, il che ti fa pensare che il modo in cui vogliono essere visti sia lo specchio di un disagio rispetto a quello che effettivamente sono" (A. Dominik, regista australiano)
sabato 28 dicembre 2013
SOVVERSIVI AMERICANI. V. MAZZA, E' un termine che porta ad esaltare la distruzione e la contestazione fine a se stesse? Oppure è uno strumento utile a valutare le rivoluzioni culturali effettivamente in atto? L’America e il culto dei “sovversivi”: una parola da cancellare dal dizionario?, IL CORRIERE DELLA SERA, 28 dicembre 2013
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