sabato 30 agosto 2014

LOTTA DI CLASSE A SAN FRANCISCO. R. STAGLIANO', Com’era verde la mia Valley (lotta di classe a San Francisco),LA REPUBBLICA, 29 agosto 2014

SAN FRANCISCO. Salvate il maestro Benito Santiago. Questo sessantatreenne filippino, con un tamburo tra le gambe, una giacca di pelle scamosciata e un fedora nero di paglia, è diventato uno dei tanti placidi soldati di una guerra culturale che si combatte da mesi nelle strade di San Francisco. Dopo trentasette anni che vive ad affitto calmierato (570 dollari) in un bilocale nella Mission, quartiere prevalentemente latino, lo vogliono sfrattare. Una legge lungamente ignorata, l’Ellis Act, lo consente anche se sei in regola coi pagamenti. E negli ultimi tre anni i proprietari immobiliari che volevano vendere ai nuovi milionari dell’industria tecnologica l’hanno usata come una clava.


Hell no, we won’t go, «non ce ne andremo, neanche per idea»
Hell no, we won’t go, «non ce ne andremo, neanche per idea», scandisce un elfo di nomeErin McElroy, ideatrice dell’Anti-Eviction Mapping Project che mappa l’escalation di sfratti cittadini. Una ventina di persone ha occupato gli uffici di Vanguard Properties, l’importante agenzia immobiliare che ha la pistola puntata sull’affitto di Santiago. Campanacci, cartelli, megafoni per spiegare il perché della protesta. Alcuni dipendenti cercano di impedire le riprese. Momenti di scenografica tensione. La polizia arriva dopo cinque minuti e Erin gridachampagne, l’incongrua parola d’ordine per la ritirata. «L’avvocato di Benito ci ha scongiurati che non deve in alcun modo risultare minaccioso» aveva avvisato. E così è stato. Una manifestante sul marciapiedi racconta emozionata di come ci si sente a essere buttati fuori di casa. Un agente che sembra la controfigura del leggendario Frank Poncharello di Chips, il telefilm anni 80, annuisce con la testa. Hanno vinto? Al più questa battaglia dilatoria. All’inizio, per convincere Santiago gli avevano offerto una buonuscita di ventimila dollari. «Ma per una casa simile, nello stesso quartiere, oggi dovrei pagarne 4000. Al mese» scuote la testa lui, che già oggi fatica con i suoi magri proventi da insegnante di musica. Viene facile solidarizzare. Ma poi, a mente fredda, non ti sembra neanche giusto che i proprietari siano incatenati in eterno a praticare le stesse tariffe (due terzi degli affitti sono calmierati) dei tempi in cui Poncharello andava in onda. O che gli informatici della Silicon Valley debbano essere condannati a vivere nella noia assassina di Mountain View o Palo Alto. Lagentrificazione, il processo di imborghesimento di quartieri marginali delle città, non l’hanno inventata loro. Come globalizzazione o immigrazione, sono dinamiche sociali che si deve provare a governare ma che è illusorio pensare di arrestare. Per gli attivisti è incomprensibile. Così come a Google sembrano non afferrare che non basta avere «Non fare il male» come motto per continuare a essere simpatici. Per tutti questi motivi la risposta alla domanda chi ha ragione? risulta più che mai elusiva.
La gentrificazione, il processo di imborghesimento di quartieri marginali delle città, non l’hanno inventata loro.
I due fronti contrapposti hanno una scarsa frequentazione del dubbio. Se per Erin le tech companies sono capitaliste come tutte le altre, interessate solo alla massimizzazione del profitto, per Lisa “Tiny” Gray-Garcia, fondatrice della fanzine per diseredati Poor Magazine, questa è una ricostruzione eufemistica. «Io la chiamo gentrifukation, l’ultimo modo in cui ci fottono» mi spiega nella redazione che si sdoppia anche come mensa per i disperati dalla Mission. Dagli indiani d’America agli spossessati del quartiere, per lei stessa storia: «Prima ci cacciano da dove eravamo, ci spingono verso una precarietà che favorisce la criminalità. Quindi ci incarcerano e si liberano definitivamente di noi». Sebbene abbia scritto un libro sul tema, parla prevalentemente per esperienza diretta, dal momento che è stata messa in carcere a dodici anni perché dormiva in auto con sua madre. Ricorda la sit/lie lawche, dalla fine del 2010, criminalizza sedersi o sdraiarsi nei luoghi pubblici di sera. Parla di genocidio, consapevole di quanto sia pesante il termine, per l’ultima ondata di sfratti. E promette battaglia. Suggerire che questi facoltosi ingegneri portano anche ricchezza, sia come indotto che come tasse, vale uno sguardo di compassione: «Ma di quali tasse parliamo? Queste aziende sono primatiste mondiali dell’elusione fiscale!». Che è vero, ma fa una colpevole confusione tra tasse aziendali (artisticamente spostate in paradisi fiscali) e tasse personali dei dipendenti (pagate qui). Google, per parte sua, risponde standard attraverso una portavoce: «Dal 2011 abbiamo contribuito a non profit locali e i nostri dipendenti hanno donato migliaia di ore alla comunità». Segue una lista di buone azioni e le due settimane di volontariato informatico che molti impiegati mettono a disposizione di realtà locali. Tutta roba vera e buona che non ha impedito che proprio i Google bus, le immacolate navette con wifi a bordo e vetri oscurati che scarrozzano ogni giorno migliaia di dipendenti da Mountain View a San Francisco e viceversa siano stati scelti come bersaglio preferenziale dello scontro di civiltà di cui stiamo parlando. Intanto perché sono tanti, circa 150 al giorno (60 solo di Google, per il 20 per cento della forza lavoro che vive in città). Poi perché si fermano nelle piazzole pubbliche, ostacolando a volte gli scalcagnati bus di linea, senza pagare un soldo alla municipalità. Con il crescere delle lamentele oggi pagano un dollaro a stop e l’azienda ha provato a silenziare il malcontento pragmaticamente, stanziando 6,8 milioni di dollari da trasformare in biglietti per giovani delle classi medio-basse. Una carità, pur sostanziosa, che non sposta il problema.
L’economista Moretti: «Su scala nazionale un posto di lavoro tecnologico ne genera cinque in altri ambiti»
Le due fazioni non potrebbero essere più distanti. Ted Egan, economista capo del comune, si offre di farmi da guida per farmelo capire. Mi porta in giro per South of Market, il quartiere alle spalle della sede di Twitter, che si è spostata qui con tutti i suoi tremila dipendenti, accettando l’offerta di potenti sgravi fiscali sino al 2016. «Certo, ma quando dicono che il comune ha rinunciato a oltre 50 milioni di tasse parlano di una cifra virtuale. Perché senza Twitter avremmo rinunciato anche alle tasse dei suoi dipendenti. E all’indotto che generano». Ci sono ancora molte delle autorimesse di una volta, ma accanto sono spuntati bar come il Sightglass dove un caffè viene distillato una goccia per volta o il Citizen Band dove un bicchiere di vino costa 14 dollari. «È chiaro che i vecchi residenti non si possono neanche avvicinare. Ma i loro figli camerieri hanno stipendi, e mance, molto più alte che altrove». Questo dell’indotto è il cavallo di battaglia di Enrico Moretti, bocconiano che insegna a Berkeley e che Obama ha interpellato: «Su scala nazionale un posto di lavoro tecnologico ne genera cinque in altri ambiti». Qui a San Francisco l’effetto moltiplicatore è ridotto dall’alto costo della vita, diciamo a 2,5 ogni nuovo tech job, ma si tratta comunque di un potente motore di ricchezza». Per come la vede lui, che ha comprato dieci anni fa un appartamento nella Mission, tirare i pomodori o tagliare la strada ai bus di Google è scegliere il bersaglio sbagliato (il venture capitalist Tom Perkins, candidandosi al premio iperbole dell’anno, ha citato la notte dei cristalli). «Il problema degli affitti astronomici è reale. Ma si spiega col fatto che, per decenni, qui si è impedito di costruire nuove case. Perché la sinistra, in maniera egoista e ideologica, ha preferito non rinunciare neppure a dieci centimetri di vista piuttosto che consentire ai nuovi arrivati di aver sistemazioni più a buon mercato. Così, per un’inevitabile legge di mercato, più domanda e un’offerta fissa hanno fatto schizzare i prezzi». Insomma: non prendetevela con i nerd che scendono, ciabatte e laptop, dai bus extra lusso. Ma con i socialisti al caviale che difendono i loro orticelli.
Il venture capitalist Tom Perkins ha paragonato le proteste contro i Google bus alla notte dei cristalli
Più la storia sembra evidente per apocalittici e integrati, più appare ingarbugliata al cronista. Sino a oggi questa è stata una delle città più tolleranti d’America. Forse la più accogliente di fronte a ogni diversità, fossero il 15 per cento di gay, il 33 di asiatici o l’impressionante quantità di homeless per cui il comune spende 165 milioni in servizi. Tenderloin è l’epicentro della marginalità. In una singola passeggiata vedo una donna che si alza la maglietta e si strizza sinistramente i seni. Un uomo con gli occhi svuotati dal crack. Un altro, più vecchio, che impreca da solo contro un nemico immaginario. Vengono perché sanno che qualcuno si prenderà cura di loro. La chiesa di St. Boniface, ad esempio, con il suo progetto Gubbio che consiste nel consentire ai barboni di dormire sulle panche in pace. «Quattro anni fa erano sessanta al giorno, adesso quasi duecento» spiega la direttrice Laura Slattery. Sull’altro lato della strada c’è la St. Antony Foundation che distribuisce 2500 pasti caldi al giorno. Da quando qui vicino si sono installati Twitter, Uber e gli altri, qualcosa è cambiato. «Hanno mandato più polizia a piedi e cominciato a far sloggiare i poveri dalle stazioni della metro, citando ridicole ragioni di sicurezza» commenta. «Si erano impegnati col comune per restituire alla comunità circa un terzo dei risparmi fiscali, ma l’unica che sembra aver preso sul serio l’accordo è Zendesk. Gli altri replicano la loro visione del mondo un po’ autistica, offrendo magari 6000 tweet, ma queste persone hanno bisogno di un pezzo di pane». Rose Broome, una trentenne che ha lavorato nella prima campagna elettorale di Obama, potrebbe a sua volta essere tacciabile di soluzionismo, l’illusione che non esista problema che qualche app non possa risolvere. Però la sua HandUp, una specie di Facebook per poveri, funziona bene nel mettere in contatto il neo-sfrattato Mark con qualcuno che lo aiuti a comprare un computer per provare a rimettersi a scrivere per uscire dal buco in cui è sprofondato. Con il disarmante ottimismo della volontà tipico della valle, dice che «insieme, ricchi e poveri, tecnologi e ex figli dei fiori, ce la possiamo fare». Mi rimanda, per una ricostruzione equilibrata della vicenda, a un monumentale articolo di Kim-Mai Cutler, reporter diTechCrunch, la Pravda degli smanettoni. Ci sono i grafici con domanda e offerta di case, quelli sulla terribile disuguaglianza della città (che cresce più rapidamente che in qualsiasi altro posto, per l’iniezione di ultra-ricchi), la serie storica delle dinamiche demografiche. Pretendere di far smammare una nonnina novantottenne o una cinquantenne sotto chemio è folle. Ma neppure assediare le case di ingegneri di Google e distribuire volantini («Parassiti») sotto le loro finestre sembra la strada giusta.
Qui va forte il soluzionismo, l’illusione che non esista problema che qualche app non possa risolvere
Gli economisti se la cavano con l’analisi costi-benefici. Gli urbanisti, come un altro italiano da esportazione, Ghigo DiTommaso dello studio Gehl, hanno uno sguardo più sfumato: «Le città sono tali quando celebrano la diversità. Di questo passo San Francisco diventerà come Manhattan, ovvero un quartiere per soli ricchi». Anche lui non parla per sentito dire: «Se lasciassi l’appartamento che due anni fa ho strappato per duemila dollari, dovrei pagare il doppio». Lock in lo chiamano, intrappolati in casa propria. Ed è la stessa paura di insegnanti, creativi e di qualsiasi altro non membro della tecnocrazia con cui parlo: «Da un momento all’altro il padrone di casa potrebbe convocarci per avvertirci che vuole vendere». È successo a New York sotto la spinta dell’oligarchia finanziaria. O in North Dakota per la corsa all’oro nero. Qui il cappello del cattivo è finito in testa agli stralunati campioni della new economy. Quelli della Silicon Valley da sempre progressista, sensibile alle ingiustizie, che per il 90 per cento ha finanziato Obama. Per questo stride di più. Anche i ricchi fanno piangere. E per il momento non sono riusciti a creare un algoritmo che riesca a far convivere, nella Mission, il signor Zuckerberg nella sua nuova casetta da 10 milioni di dollari e il soldato Santiago con il suo camera e cucina a rischio.

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