domenica 20 novembre 2016

ELEZIONI IN USA. TRUMP PRESIDENTE. G. MOLTEDO, Con Trump tutte le sfumature della destra, IL MANIFESTO, 20 novembre 2016

«Tieniti stretti gli amici, ma ancor più i tuoi nemici», ripeteva don Vito Corleone a Michael/Al Pacino, che ricordava quelle parole paterne come la massima della sua vita.


E il vecchio adagio di Sun-Tzu ben s’attaglia alle ultime mosse del «padrino» della Casa Bianca. Mosse tese a rimettere in riga, cooptandoli, i papaveri del Partito repubblicano, suoi avversari implacabili nel corso della campagna elettorale.
Ieri l’annunciato incontro con Mitt Romney non era semplicemente nel segno della riconciliazione ma faceva addirittura presagire, secondo NBC News, l’assegnazione al suo massimo critico nell’establishment repubblicano della poltrona più importante, quella di segretario di stato.
Si è parlato anche dell’ingresso nell’amministrazione di Ted Cruz, con il quale lo scontro nelle primarie è stato particolarmente infuocato (Trump lo chiamava molto carinamente «Lyin’ Ted», quel bugiardo di Ted, niente però al confronto dell’«incarnazione di Lucifero» affibbiatagli dall’ex speaker della camera John Boehner). Cruz aspirava all’altro posto chiave nell’amministrazione, quello di Attorney General, ministro di giustizia, poltrona poi attribuita al senatore Jeff Sessions (e prima promessa a quell’altro galantuomo di Rudy Giuliani, indicato anche per la guida del dipartimento di stato). Pare che Cruz adesso si proponga per il posto di giudice della corte suprema di Antonin Scalia, morto a febbraio, esponente ultraconservatore che oggi pare un liberal al confronto di Cruz.
Fondate o meno, queste indiscrezioni fatte circolare ad arte dalla Trump Tower di Manhattan, compongono un quadro che può essere considerato o massimamente confuso – di una nuova amministrazione guidata da un apprendista stregone senza bussola, come scrivono i media liberal – oppure come la progressiva realizzazione di un disegno politico solo all’apparenza incoerente ma in realtà coerente.
Trump, includendo nella sua amministrazione anche chi gli ha remato contro, o anche solo lusingandolo o illudendolo di coinvolgerlo, si propone come il federatore, sotto la sua leadership indiscussa e indiscutibile, delle varie anime del mondo conservatore, da quelle estreme prossime al tea party e perfino al Ku Klux Klan, a quelle moderate, neocon e dell’establishment vicino al complesso militare-energetico (ha incontrato anche Henry Kissinger): le diverse anime, appunto, che si sono scannate prima e durante le primarie repubblicane, una guerra civile che Trump ha saputo abilmente sfruttare a suo favore.
Per ora manca all’appello la famiglia Bush e la cerchia dei fedelissimi ma forse è solo questione di tempo.
A ben vedere, non è un’operazione ardita come potrebbe far pensare il clima avvelenato delle primarie repubblicane, dal momento che a dividere i diversi settori della destra americana non è tanto l’ideologia quanto gli interessi. L’ideologia, con alcune varianti non particolarmente significative, è quella che trova origine nel reaganismo e si è sviluppata in oltre un trentennio, alimentando fenomeni come il tea party e legittimando movimenti estremisti legati alle sette cristiane.
Certo, non sarà facile comporre un puzzle nel quale – solo pensando alla politica internazionale e militare – il presidente si professa isolazionista mentre i suoi più stretti collaboratori sono superinterventisti come l’ex-generale Michael Flynn (nuovo consigliere per la sicurezza nazionale), Mike Pompeo (neodirettore Cia) e il senatore Jeff Session.
Ma il fattore ancora del tutto insondabile è il «temperamento» di Trump, che ha un livello fuori misura d’imprevedibilità e che, secondo la propaganda clintoniana, ma anche in quella dei suoi rivali repubblicani, ne fa un comandante in capo umorale e inaffidabile.
Eppure, adesso che lo è davvero, presidente degli Stati Uniti, c’è una sorta di mantra che gira (nei nostri media con ottuso compiacimento) secondo cui il presidente eletto va considerato diverso dal candidato Trump. Addio slogan fascistoidi e messaggi sconnessi, benvenuto commander-in-chief concreto e pragmatico. In realtà, invece, si osserva una perfetta linea di continuità con la campagna elettorale nella scelta dei primi consiglieri, Steve Bannon in testa, il suo principale stratega, beniamino del KKK, e poi di Pompeo, Sessions e Flynn.
Ma l’eventuale inclusione di esponenti dell’establishment repubblicano non è un contrappeso né segno di cerchiobottismo, quanto l’inclusione, sulla sua linea, di esponenti che in passato operavano mimeticamente posizionamenti al centro, per catturare il voto moderato e quello in bilico.
Con Trump tutta la destra americana – contando peraltro sulla maggioranza nei due rami del Congresso e presto anche alla Corte Suprema – si sente perfettamente rappresentata in tutta la sua miseria e cattiveria e oggi è finalmente libera di esprimersi senza ritegno.

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