Non tutti possono vendere l’anima al diavolo, per la semplice ragione che bisogna avere qualcosa che Belzebù abbia voglia di comprare. Nel caso di J. D. Vance, il qualcosa c’era: non il suo servilismo verso Trump, non il suo talento di scrittore, ma una qualità che è molto rara nella politica americana: l’autenticità.
Vance è davvero cresciuto negli Appalachi, salvato da due nonni di scorza dura, bianchi poveri come ce n’erano, e ce ne sono, a milioni.
In Trump tutto è falso: la sua abilità di uomo d’affari, il suo patrimonio, la sua fede religiosa, le sue convinzioni politiche. È talmente bugiardo che giornalisti e oppositori perdono la bussola cercando di smentire le sue frottole. Quindi scegliere come candidato vicepresidente qualcuno che è davvero cresciuto in Ohio, davvero aveva una madre tossicodipendente e davvero è stato capace di descrivere tutto questo in Hillbilly Elegy è sicuramente la prova che il talento satanico di Trump è purtroppo ancora al lavoro.
Questa recensione è uscita nel 2016 su Alfabeta2, la rivista culturale fondata da Nanni Balestrini
Li chiamano Rednecks, oppure White Trash: sono bianchi, poveri e, in larghissima parte, maschi. Hanno, quasi sempre, un arsenale in casa, che torna utile quando i buoni pasto sono finiti e c’è bisogno di procurare un po’ di carne per la cena andando nei boschi vicini. Sono il popolo di Donald Trump, l’improbabile eroe politico della tribù bianca in rivolta.
Il viaggio per capire quanti sono e cosa vogliono può cominciare nel simbolo stesso della controcultura degli anni Sessanta contro cui si sono ribellati: Woodstock. E’ in questa cittadina dello Stato di New York, dove tra il 15 e il 18 agosto 1969 si tenne il più celebre concerto rock di tutti i tempi, che Donald Trump ha ottenuto il 64% dei voti nelle primarie repubblicane di qualche mese fa, ed è in contee come quella dove si trova Woodstock –rurali, spopolate, impoverite- che Trump otterrà i suoi migliori risultati in novembre.
Sono gli Appalachi, la catena montuosa che divide la costa orientale degli Stati Uniti dalle grandi praterie e dall’Ovest: una barriera naturale che culturalmente e politicamente sembra invalicabile oggi quanto lo era per i puritani sbarcati nel 1620. Montagne che ospitano una tribù bianca con una subcultura forte, coesa al suo interno, con rituali propri e una irriducibile ostilità nei confronti dei diversi, tanto più forte se si tratta di politici o di giornalisti.
Sono gli americani discendenti da antenati scozzesi e irlandesi che troviamo nella parte centrale dello stato di New York, in Pennsylvania, in West Virginia, in Virginia, in Kentucky, in Tennessee e ancora più a sud, fino in Georgia, Alabama e Mississippi.
Quest’anno se ne è parlato molto, e nei prossimi mesi se ne palerà ancora di più perché il curioso cocktail di misoginia, promesse impossibili e xenofobia offerto da Trump ha fatto presa su di loro. La loro ribellione ha frantumato il partito repubblicano, costretto ad accettare un outsider come candidato, cosa mai avvenuta in precedenza, e sta scuotendo anche il partito democratico, che ha scelto di nominare un puro prodotto dell’establishment come Hillary Clinton in un anno in cui sono più di moda i forconi che le borse Prada.
Della tribù bianca in rivolta parla un interessante, a tratti commovente, libro di J. D. Vance intitolato Hillbilly Elegy, una memoria di famiglia. Gli Hillbillies sono stati nel tempo boscaioli, minatori di carbone, operai negli altiforni di Pittsburgh o nelle fabbriche di Akron, muratori, meccanici, camionisti.
Sono stati sottratti alla miseria dal New Deal di Roosevelt e dalla Seconda guerra mondiale e sono stati fedeli per 40 anni al partito democratico. Poi il rifiuto della guerra del Vietnam e il ’68 li hanno catapultati nel campo repubblicano, per i 40 anni successivi e fino ad oggi.
Vance è un giovane avvocato che oggi vive in California ma è nato a Middletown, in Ohio, da un padre ben presto scomparso e da una madre tossicodipendente. E’ cresciuto con i nonni, una coppia di duri teenager scappati da Jackson nel Kentucky per sposarsi e cercare fortuna a Middletown, in Ohio, negli anni Quaranta (Johnny Cash ha dedicato a Jackson una delle sue canzoni più famose, che inizia: “We got married in a fever, hotter than a pepper sprout…”).
Non ebbero vita facile quelli che Vance chiama “Mamaw” and “Papaw” ma negli anni Cinquanta il midwest industrializzato dava lavoro, casa e sicurezza del futuro a tutti. Papaw lavorava all’Armco, uno dei giganti dell’acciao, e per decenni sembrò che il destino di figli e nipoti potesse solo migliorare. Poi le acciaierie cominciarono a chiudere, così come le fabbriche di automobili, come sa chiunque abbia visto Roger and Me di Michael Moore.
La deindustrializzazione portò con sé la desertificazione sociale: i privilegiati, i più abili, i più intelligenti, i più tenaci se ne andarono a Chicago, a Buffalo o a New York mentre la stragrande maggioranza restava attaccata a case che cadevano in rovina, quartieri dominati dalle gang della droga, lavori che duravano poche settimane o pochi mesi.
La religione, il nazionalismo, l’ostinazione non riuscirono a mantenere gli hillbillies in quella classe media che avevano creduto di avere raggiunto per sempre.
Vance è uno di quelli che ce l’ha fatta, il frutto di una famiglia che credeva nell’educazione e nel principale sistema di welfare che di cui Stati Uniti dispongono: l’esercito.
Dopo la scuola superiore Vance scelse per quattro anni i Marines, il che gli permise di andare all’università e poi alla Yale Law School, la fabbrica delle élite. Adesso è un avvocato benestante con moglie, bambini, e casa con piscina, però non ha dimenticato i nonni e la sorte dei 25 milioni di americani bianchi e sfortunati che vivono nelle 420 contee degli Appalachi e si preparano a votare per Donald Trump.
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