giovedì 24 aprile 2025

TRUMP E LA CRISI FRA CINA E USA. GABELLINI G., Il matrimonio di interessi tra Stati Uniti e Cina è saltato, KRISIS, 22.04.2025

 L’idillio è finito. Per decenni Washington e Pechino avevano condiviso un rapporto di interdipendenza economica senza precedenti, fondato sulla delocalizzazione produttiva e sul finanziamento del debito americano. Ma l’era del matrimonio di interessi volge al termine. Le recenti dichiarazioni di J.D. Vance, le tensioni commerciali e l’ascesa tecnologico-industriale della Cina raccontano la fine di un equilibrio che ha dominato la globalizzazione post Guerra fredda. Ecco la prima puntata di una serie di approfondimenti di Krisis dedicati all’ascesa e al declino della Chimerica.




 

Parte I – Ascesa e declino di Chimerica

«Prendiamo in prestito denaro dai contadini cinesi per comprare i beni che quegli stessi contadini cinesi producono». Con questa sintesi, il vicepresidente degli Stati Uniti J.D. Vance ha spiegato le conseguenze, per gli Stati Uniti, della cosiddetta economia globalista. Lo scorso 10 aprile, nel corso di un’intervista rilasciata a Fox News, Vance ha difeso strenuamente la decisione del presidente Donald Trump di imporre dazi (quasi) a 360 gradi, e sferrato un attacco frontale all’assetto liberoscambista in vigore ormai da diversi decenni. Vance ha spiegato che la globalizzazione si è tradotta nel «contrarre un debito enorme per acquistare beni che altri Paesi producono per noi».

La reazione cinese è giunta pressoché istantaneamente. Il portavoce del Ministero degli Esteri Lin Jian ha dichiarato che «è allo stesso tempo sconcertante e deplorevole sentire questo vicepresidente fare commenti così ignoranti e irrispettosi». Hu Xijin, ex caporedattore del quotidiano Global Times, ha invece alluso alle origini che Vance, un hillbilly (contadino montanaro, ndr) ha sempre rivendicato per affermare che «questo vero “contadino” venuto dall’America rurale sembra mancare di prospettiva. Molte persone lo stanno esortando a venire a visitare la Cina di persona».

Al di là del trambusto prevedibilmente suscitato, le durissime e irritualmente sprezzanti dichiarazioni formulate da Vance sintetizzano l’entità del mutamento strutturale subito nel corso del tempo dalla relazione sino-statunitense.

Un rapporto complesso, istituito su iniziativa di Washington per superare la grave situazione economica in cui gli Stati Uniti versavano intorno alla fine degli anni Sessanta. La ricostruzione di alleati e satelliti, promossa con capitali e risorse materiali statunitensi all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, aveva posto le condizioni per un’enorme espansione del commercio protrattasi per circa un ventennio.

Senonché, la combinazione di obiettivi geopolitici (come il containment dell’Unione sovietica) e di necessità economiche (abbattimento dei costi di produzione e «protezione»), alla base della ricostruzione di Europa e Giappone, portò a conseguenze inaspettate. Dopo la guerra, questi Paesi erano stati trasformati in potenze industriali orientate all’export. Tale processo generò, nel tempo, avanzi commerciali sempre più ampi a loro favore, che compromisero l’equilibrio delle partite correnti statunitensi.

La perdita di competitività del sistema produttivo domestico peraltro si sommava all’incremento astronomico dei costi di mantenimento dello «Stato di sicurezza nazionale» interno e dell’architettura di difesa estesa all’Europa occidentale e all’Asia orientale.

Gli squilibri andarono ulteriormente acuendosi nel momento in cui gli Usa cominciarono ad avvertire i contraccolpi generati dalla Guerra del Vietnam, sotto forma di aumento vertiginoso dei deficit pubblico e di bilancia dei pagamenti. Il risultato fu un deflusso d’oro verso Europa occidentale e Giappone, con conseguente incremento della pressione sul dollaro che indusse infine Nixon a decretare il ripudio unilaterale degli accordi di Bretton Woods.

Mentre l’equilibrio monetario saltava, sul fronte geopolitico si faceva strada una nuova opzione: l’apertura alla Cina di Mao Zedong, propedeutica alla sua integrazione nello schieramento occidentale. Se l’ex Celeste impero necessitava di tecnologie e investimenti che solo l’Occidente era nelle condizioni di assicurare, gli Stati Uniti si trovavano a loro volta nell’impellenza di mitigare le pressioni inflazionistiche scaturite dal ritiro unilaterale dagli accordi di Bretton Woods e dalla crisi petrolifera del 1973.

Mossa dalla ricerca dei migliori vantaggi comparati, la riallocazione geografica dei capitali statunitensi si risolse così in una migrazione generalizzata delle filiere produttive statunitensi verso la Repubblica Popolare Cinese, che mettendo a disposizione il proprio enorme bacino di manodopera a basso costo e inquadrata militarmente si impose come la massima beneficiaria della «transnazionalizzazione» delle catene del valore e del consolidamento del regime liberoscambista.

Per gli Stati Uniti (maggiori consumatori a livello mondiale), il contenimento dell’inflazione è quindi venuto a dipendere dall’importazione di manodopera straniera a basso costo utile a mantenere stagnante la crescita dei salari nominali, ma anche dalla preservazione del potere d’acquisto interno. Una condizione garantita proprio dall’afflusso costante di merci a buon mercato prodotte dalla Cina (maggior risparmiatrice a livello mondiale). A sua volta, Pechino ha reinvestito, prevalentemente in titoli di Stato statunitensi, le disponibilità finanziarie accumulate mediante l’export verso gli Stati Uniti. Da questo rapporto di interrelazione, reciprocamente vantaggiosa sotto il doppio profilo economico e finanziario, è scaturito un blocco geoeconomico denominato per semplicità Chimerica.


Verso la metà del 2005, la Cina aveva già riciclato oltre 1.000 miliardi di dollari di proventi dell’export nell’acquisto di Treasury Bond. A quattro anni di distanza, il Financial Times scriveva che «il Dollar standard informale che è succeduto all’epoca di Bretton Woods ha consentito ai Paesi in deficit, come gli Stati Uniti, di consumare più di quanto producono, e ai Paesi in surplus, come la Cina, di produrre più di quanto consumano […]. Attualmente, il deficit commerciale degli Stati Uniti persiste, mentre il surplus della Cina continua a espandersi. Almeno per il momento, il “deficit senza lacrime” sopravvive».

Il «tributo cinese all’impero americano», come lo definì lo storico dell’economia Niall Ferguson, risultava funzionale a una ben precisa strategia operativa. In sintesi, apportare un contributo cruciale al finanziamento del deficit statunitense attraverso l’acquisto diretto di titoli di Stato Usa, così da mantenere ampia la forbice tra yuan-renminbi e dollaro e rendere le merci cinesi altamente competitive sul gigantesco mercato statunitense. Si trattava di una prassi necessaria nella fase di «accumulazione primitiva» sorretta dall’export, ma soggetta a una graduale perdita di centralità man mano che la Repubblica popolare cinese spostava l’asse della crescita dalle esportazioni al consumo interno e procedeva all’ammodernamento tecnologico della propria struttura produttiva.

Una svolta, quest’ultima, che l’apparato dirigenziale di Pechino aveva già messo in cantiere, ma destinata a subire una brusca accelerata in seguito alla bancarotta di Lehman Brothers del 2008. Il piano di investimenti lanciato dall’apparato dirigenziale di Pechino all’indomani del crac ha generato effetti dirompenti, perché ha comportato la concessione di concreto sostegno finanziario alla popolazione e l’allestimento di una gigantesca rete infrastrutturale interna.

Il modello cinese, capace di combinare i vantaggi della pianificazione strategica centralizzata a quelli dell’economia di mercato in un contesto di rigoroso controllo pubblico dell’infrastruttura monetaria, ha posto Pechino nelle condizioni di conseguire un processo di trasformazione senza precedenti. Da fornitrice di merci a basso costo dall’irrisorio o scarso valore aggiunto, la Cina si è gradualmente affermata come prima forza industriale e al tempo stesso commerciale del pianeta. Ma è diventata anche la principale importatrice di materie prime, in grado di conseguire un costante incremento sia quantitativo che qualitativo delle proprie risorse militari.

La Cina detiene oggi otto dei primi dieci porti industriali al mondo. Ogni anno, deposita il doppio dei brevetti e sforna un numero di laureati nel comparto Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics) da otto a 15 volte superiore agli Stati Uniti a fronte di una popolazione quattro volte maggiore. Un altro dato degno di nota è il fatto che, tra il 2003 e il 2007, gli Stati Uniti erano leader mondiali in 60 dei 64 settori coperti dal Critical Technology Tracker dell’Australian Strategic Policy Institute (Aspi) contro i tre totalizzati dalla Cina. Nel 2023, la Cina era diventata leader in 57 aree.

I primi 10 Paesi per Pil a parità di potere di acquisto nel 2023. Grafico a cura di Aeroide su dati del FMI. Licenza

Non solo. La quota di valore aggiunto sul totale a livello mondiale generata dal settore manifatturiero della Cina supera ampiamente quella ricavabile dalla sommatoria degli apporti forniti da Stati Uniti e Unione Europea. L’ex Celeste impero occupa una posizione semi-monopolistica sulla produzione delle terre rare e acquisisce continuamente all’estero infrastrutture finanziarie strategiche, funzionali al potenziamento delle proprie capacità di investimento e proiezione di potenza. La Cina sovvenziona mediante sussidi e protegge con barriere sia tariffarie sia normative anche quelle aziende operanti nei settori chiave dell’avionica, dell’energia e dell’informatica che l’apparato dirigenziale di Pechino punta a trasformare in imprese leader a livello mondiale.

I progressi sensazionali realizzati dalla Repubblica popolare cinese nel campo dei supercomputer e in materia di cyberwarfare testimoniano come il Paese sia ormai ben instradato lungo il percorso che conduce al raggiungimento degli ambiziosi traguardi prefissati dai pianificatori di Pechino. Tali progressi avvalorano le previsioni formulate già nel 2012 dall’Us National Intelligence Council all’interno di un rapporto in cui si legge che «probabilmente, la Cina supererà gli Usa affermandosi come prima economia mondiale prima del 2030 […]. Entro quella data, l’Asia sorpasserà in termini di potere globale l’Europa e il Nord America combinati, stando alle proiezioni relative a Pil, popolazione, spesa militare e investimenti in tecnologia».

In realtà, dall’analisi delle economie cinese e statunitense condotta in base al criterio del Pil a parità di potere d’acquisto (elevato a indicatore di riferimento dalla stessa Cia perché considerato il parametro maggiormente affidabile) emerge che in realtà il sorpasso è già avvenuto nel 2014. Lo certifica il World Economic Outlook redatto in quell’anno dagli specialisti dell’Fmi, in cui si dava atto che la Cina aveva sviluppato un’economia da 17.600 miliardi di dollari, a fronte dei 17.400 miliardi raggiunti da quella statunitense.

Da allora, attestano i rapporti redatti anno dopo anno dagli economisti del Fondo monetario internazionale, il Dragone non ha fatto altro che accumulare ulteriore vantaggio sugli «inseguitori». E si è imposto come principale produttore mondiale di abbigliamento, acciaio, alluminio, computer, mobili, navi, prodotti farmaceutici, semiconduttori, telefoni cellulari e tessuti.


Licenza Creative Commons CC BY-NC-ND Ver. 4.0 Internazionale

Nella prossima puntata analizzeremo il mutamento strutturale delle relazioni sino-statunitensi, con l’introduzione delle prime restrizioni commerciali e tecnologiche imposte da Washington.

: Analista geopolitico ed economico, è autore di numerosi saggi, tra cui Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense (2021), Ucraina. Il mondo al bivio (2022), Dottrina Monroe. L’egemonia statunitense sull’emisfero occidentale (2022), Taiwan. L’isola nello scacchiere asiatico e mondiale (2022), Dedollarizzazione. Il declino della supremazia monetaria americana (2023). Ha all’attivo numerose collaborazioni con testate sia italiane che straniere.

Nessun commento:

Posta un commento