Un'intervista di Ivan Bonnin, Anna Curcio e Leonardo Zannini con Robin
Kelley, storico radicale afroamericano. Il filo rosso di una critica al razzismo
e all'oppressione, dal «potere nero» alla recente esperienza di Occupy. il
manifesto, 11 aprile 2013
La straordinaria e
controversa esperienza del Black Power, la capacità di valorizzare la
cooperazione sociale, creando nuove istituzioni; la potente irruzione del
femminismo nero, i nodi irrisolti dei percorsi politici costruiti sul terreno
delle identità, il tema spinoso della solidarietà e l'eredità di
quell'esperienza nei movimenti contemporanei. Sono questi i temi affrontati da
Robin Kelley, eclettico studioso e militante, figura di spicco del radicalismo
nero in America che ha attraversato da protagonista diverse stagioni di
attivismo politico, compresa l'esperienza di «Occupy». Kelley, con lo sguardo
interno del militante, riafferma le peculiarità, a volte nascoste, di «Occupy»,
rintracciandone la «genealogia».
Anche se i media hanno insistito sulla
presenza di giovani di classe media, iscritti al college, che soffrono la
mobilità sociale traducendola in rabbia contro il mondo della finanza, Occupy ha
visto, sostiene Kelley, una significava presenza di african american. Ma
soprattutto è stato il prodotto di reti sociali sviluppatesi nei decenni
precedenti intorno a organizzazioni multirazziali attive sul tema del lavoro,
della povertà. Vanno quindi analizzati l'impatto politico e gli insegnamenti
lasciati dal Black Power - di fatto smantellato dal «controspionaggio» del Fbi -
che hanno influenzato e continuano a influenzare le successive generazioni di
militanti. Non c'è però una linea diretta. L'unica connessione evidente con il
Black Power è il Black Panther Party (che non è mai stata una formazione del
potere nero, ma un'organizzazione socialista con una forte vocazione
multinazionale) attraverso la «Rainbow Coalition», di cui fu artefice Fred
Hampton a Chicago. Una «coalizione» tesa ad organizzare portoricani e altri
lavoratori latinos, anche se al suo interno erano presenti anche molti bianchi,
gran parte di origine asiatica. A Los Angeles, ad esempio, il «Labor Community
Strategies Centre» ha tra i suoi fondatori un ragazzo della working class
newyorchese, membro del «Congress Observation Equality», che dopo alcuni anni di
prigione come militante dei «Weather Undergound» si è dedicato alla lotta
multirazziale. Quando dilaga la protesta di Occupy, lo «Strategies Centre», che
combatte le politiche razziste delle agenzie di trasporto, ma anche la
criminalizzazione dei giovani blacks e latinos, è una delle più importanti
strutture di mobilitazione, con circa trent'anni di esperienza alle sue spalle.
La presenza african american dentro Occupy è un tema controverso e
ampiamente dibattuto... Qual è il suo punto di vista?
Il movimento
Occupy a New York e Los Angeles non ha una critica radicale al razzismo. È per
questo che non attrae molti afroamericani. Diverso è il caso di Okland: qui
esiste una working class nera organizzata e sindacalizzata che fa la differenza.
Non è un'eccezione isolata. Conosciamo anche un movimento parallelo a Occupy,
guidato da african american: è «Occupy the Hood». Nato a Detroit, si è poi
diffuso in tutto il paese, concentrandosi sul fatto che a neri e latinos, in
misura esponenzialmente maggiore, viene pignorata la casa. Negli Usa, i mutui
sono cresciuti in modo predatorio per l'intervento di agenzie di intermediazione
che propongono di rinegoziare il debito, usando in una cornice razzista la
necessità economica e i dati individuali. «Occupy the Hood» funziona a binari
paralleli. Alla battaglia contro il pignoramento delle case si affianca quello
contro la criminalizzazione degli african american.
La capacità di
agire contemporaneamente su piani differenti è un punto di contatto con le
pratiche del Black Panther Party...
Sul finire degli anni Sessanta,
nel movimento afroamericano c'è stata una profonda discussione su quale fosse il
vero luogo del processo organizzativo. Una parte lo individuava nel posto di
lavoro, l'altra nella comunità nera; le due strategie sono state combinate. In
particolare, sono state le università a rappresentare il punto di convergenza.
Nel 1968, alla Columbia University, la protesta si è trasformata in una critica
alle collaborazioni dell'ateneo con le agenzie militari, ai processi di
gentrification avviati nella vicina Harlem, battendosi per
l'istituzionalizzazione degli «ethnic studies» e per cambiare i curricula
universitari. Oltre alla «riforma» delle università: l'altro obiettivo
perseguito era il coinvolgimento di tutta la comunità dentro le mobilitazioni.
Insomma, c'era la difesa della popolazione di Harlem, ma anche la volontà di
coinvolgerla nella mobilitazione dentro e contro l'istituzione universitaria. Ad
anni di distanza, la posta in gioco, per i neri, è ancora la fine di tutte le
forme di oppressione.
Proprio intorno al tema dell'identità e al
senso della politica si è prodotta una delle più radicali e produttive rotture
dentro il Black Power, quella del femminismo nero...
Molte delle
iniziali militanti femministe nere provengono dal «Black Power». Il loro punto
di partenza era il conflitto verso chi le voleva tacitare, dentro e fuori la
comunità nera, sulle loro critiche verso la politica di genere. Nello stesso
tempo, hanno prodotto una critica del femminismo bianco, spesso indifferente
verso il razzismo nella società americana. Detto questo, resta la modalità
specifica con la quale hanno espresso un dissenso radicale rispetto
l'oppressione patriarcale di classe, il razzismo e la sessualità. Era in gioco
contemporaneamente la loro identità come donne, african american e in quanto
destinatarie degli aiuti di Stato. Negli anni Novanta, la lotta contro la
«Milion Man March» della Nation of Islam e le battaglie contro gli attacchi al
welfare avevano come protagoniste donne nere. Anche sul tema
dell'anti-imperialismo, le più lucide critiche afroamericane sono arrivate da
Angela Davis, Gina Dent e Barbara Smith.
Un'altra delle preziose
intuizioni del femminismo nero è stata la critica alla solidarietà, parola
spesso usata per mascherare processi di vittimizzazione...
Si tratta
di capire in che termini parliamo di solidarietà. Se è il rapporto tra un gruppo
che rivendica un'identità per migliorare la propria posizione all'interno di
gerarchie capitaliste e un altro che non ha alcun potere, non è solidarietà. I
nativi americani, le donne nere, la classe operaia afroamericana hanno sempre
spinto per politiche di solidarietà basate sulla demolizione dei regimi
razziali, del patriarcato e del più complessivo stato di oppressione. I
lavoratori bianchi negli Stati Uniti non sono stati in grado di comprendere che
anche la loro emancipazione era legata alla distruzione del regime razziale. Non
sono d'accordo, invece, con chi propone di superarare le politiche delle
identità. La solidarietà dipende dall'identificazione con le lotte di altri
soggetti. Per esempio negli anni Ottanta a Los Angeles, il «Sanctuary Movement»
combatteva il sostegno del governo statunitense ai regimi dittatoriali in
solidarietà con i rifugiati politici che scappavano dagli squadroni della morte
in Salvador, Guatemala e altri paesi dell'America latina. Nessuno di noi aveva
mai visto in faccia uno squadrone della morte, ma con un salto d'immaginazione
abbiamo capito che quella era anche la nostra lotta. Oggi invece i processi
politici sono basati sugli interessi. La nostra battaglia diventa allora
comprendere come poter costruire solidarietà in una società in cui le identità
sono imposte dall'alto e utilizzate per strutturare le forme di politica attorno
ai gruppi di interesse.
Ma come si può sfuggire alla gabbia
ideologica che il concetto di identità produce?
Negli Stati Uniti, i
liberal bianchi hanno accusato donne, african american, disabili e poveri di
mettere in discussione le conquiste degli anni Venti e Trenta del Novecento:
l'argomento sbandierato era proprio la questione identitaria. Ma queste identità
stanno dentro sistemi di «razzializzazione» e di autorità patriarcale che creano
gerarchie di potere. Detto questo non ha mai creduto alle favole in base alle
quali un giorno ti svegli e dici: «Sono orgoglioso di essere nero o di essere
donna». Le identità devono essere parte di un processo dinamico in cui diventano
risorsa. Per esempio, non c'è whiteness senza black o senza brown: l'abolizione
del concetto di «bianchezza», dell'identità bianca del privilegio, è il primo
passo verso una forma profondamente radicale di solidarietà.
Per
restare in tema di identità, un'ultima domanda è sul ruolo di Obama all'interno
della black community che continua a sostenerlo, benché siano ormai tramontate
le speranze che molti afroamericani avevano riposto nel presidente....
Oggi in America il potere della politica spettacolo ha reso
impossibile una critica di massa a Obama e soprattutto ha reso arduo discutere
di razzismo. In tanti vogliono credere che il razzismo sia finito. Obama è però
il presidente che ha deportato il maggior numero di lavoratori senza documenti,
che ha intensificato gli attacchi di droni. Tra gli afroamericani è tuttavia
diffuso la convinzione di «non criticare il nostro presidente». Siamo così
abituati alla logica neoliberale che non ce ne rendiamo conto. Diverso è il
pensiero tra gli attivisti nella tradizione radicale nera: sono molto critici su
Obama, ma non hanno una piattaforma condivisa. Io dico sempre che non si impara
niente dalla pelle. Bisogna invece saper come costruire un terreno di
condivisione. Chiedersi: perché le persone hanno il salario minimo? O sono in
carcere? Per quale motivo uomini e donne continuano ad essere buttate fuori
dalle loro case? E come mai i banchieri fanno così tanti soldi? Discuto spesso
con i miei studenti che pensano di sapere tutto solo per il fatto di essere neri
o latinos. È necessario invece leggere, criticare, impegnarsi, mettere in
discussione, discutere e produrre un'analisi che sia dinamica e mai statica. E
questo in una situazione dove l'infotaitment ha reso quasi impossibile una
formazione critica.
Scaffale
L'invisibile classe
operaia nera e i movimenti sociali urbani
Robin D.G. Kelley, figura
chiave del «Black Marxism» e docente di storia americana alla Ucla, è
considerato uno dei principali storici afro-americani contemporanei. Nei suoi
lavori si trovano registri assai differenti. Studioso della classe operai nera
negli Stati Uniti, ha portato alla luce la storia in gran parte invisibile del
Partito comunista in Alabama durante la Grande Depressione (storia raccolta nei
volume Hammer and Hoe del 1990 e Race Rebels. Culture, Politics and
the Black Working Class, 1994). Ma è anche uno dei più attenti osservatori e
critici dei fenomeni culturali e sociali afro-americani. Tra i suoi lavori, va
ricordato Yo' Mama's Disfunktional del 1997, un autentico viaggio tra la
poesia, la musica e la cultura di strada afroamericana e insieme una caustica
critica agli stereotipi «made in Usa» con un punto di vista saldamente radicate
nei movimenti urbani afroamericani. «Analogamente Freedom Dreams. The Black
Radical Imagination» del 2002, considerato il «romanzo di formazione»
dell'autore, attinge dalla tradizione del radicalismo nero, femminista e
socialista per cogliere il nesso tra linguaggi politici, espressioni culturali e
pratiche artistiche. Il confluire insieme di registri discorsivi così eterogenei
è specchio della sua formazione politica e culturale. Cresciuto ad Harlem tra
gli anni Sessanta e Settanta, ha sempre coltivato l'interesse per i movimenti
sociali, politici e culturali, di cui è stato anche protagonista, e per la
musica: dal jazz al reggae all'hip hop. Attualmente vive e lavora a Los Angeles.
"Siamo inondati dalle immagini di Hollywood e da una visione del mondo filtrata attraverso lo sguardo yankee. Poi vai negli USA e ti accorgi che la realtà è diversa da come gli americani la raccontano, il che ti fa pensare che il modo in cui vogliono essere visti sia lo specchio di un disagio rispetto a quello che effettivamente sono" (A. Dominik, regista australiano)
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