lunedì 8 giugno 2015

CINEMA E SOCIETA'. INTERVISTA CON R. MINERVINI. M. CONSOLI, Minervini, tra fiction e documentario "Così vi racconto il lato oscuro degli Usa", L'ESPRESSO, 27 maggio 2015



Dimenticate gli sfavillanti grattacieli di New York, la spiaggia di Malibu, la notte delle stelle, la statua del Lincoln Memorial e tutte le immagini associate all’America trionfante, patria delle libertà civili e del sogno alla portata di tutti. Nel documentarioLouisiana (The Other Side), in uscita al cinema giovedì 28 dopo la positiva accoglienza al festival di Cannes, il regista Roberto Minervini ci porta a conoscere il lato oscuro degli Stati Uniti. 

Che, come dice lui, “sono un Paese allucinante, dove la democrazia nata attraverso il conflitto si basa sull’annichilimento di alcune fasce della società”. Nel nord dello Stato che intitola il film la cinepresa del regista originario di Fermo si incolla agli emarginati, ai poveri, ai senza tetto e senza diritti, a uomini e donne assuefatti all’uso degli stupefacenti e persino ai reduci di guerra, lasciati soli e ancora psicologicamente asserragliati, stavolta contro un nemico che è lo stesso Governo che li aveva assoldati.





“Sono entrato in contatto con queste persone”, racconta il regista all’Espresso “grazie ad un protagonista del mio precedente lavoro, Stop The Pounding Heart (capitolo finale della trilogia sul Texas, ndr.). Volevo mostrare un’America di cui nessuno parla e così ho deciso di esplorarne una delle regioni più povere, dove il 60 per cento della popolazione è disoccupata e distrutta dall’amfetamina”.

Quali sono state le difficoltà di entrare in un territorio così aspro?
Prima di iniziare le riprese ho informato la polizia locale, per chiedere tutela e per poter lavorare in pace, ma loro mi hanno detto che in queste aree non entrano: in America c’è un meccanismo perverso per cui le persone sono ghettizzate in un modo così perfettamente architettonico che tutto funziona e la facciata di non violenza viene mantenuta con la sola minaccia di un intervento della legge. Qui non ci sono raid come nelle favelas del Sud America, perché negli Stati Uniti c’è la calma piatta: è un sistema con assenza totale di welfare che funziona perché alcuni strati sociali sono portati allo stato comatoso. E quando sei in coma non fai rumore.

È stato arduo guadagnarsi la fiducia di queste persone?
Una volta avuto l’accesso a queste comunità, ho cercato di instaurare un rapporto vero e sincero con le persone che ho voluto ritrarre. In queste zone dove si è perduto tutto esistono ancora le qualità primordiali dell’indole umana: l’intelligenza, la sensibilità, le emozioni. I protagonisti non sono intellettuali, ma non è stato difficile fargli capire le mie intenzioni: tra noi c’è stata una comunicazione immediata, quasi animalesca. Ho cercato di tenere a mente l’insegnamento di una delle persone con cui mi sono formato, il fotografo di guerra premio Pulitzer David Turnley, che sottolineava sempre come la foto non riguarda chi riprende, ma la relazione tra il soggetto e lo spettatore. Lui diceva “non riguarda me” ed è stato il mio mantra, che mi sono ripetuto costantemente anche quando ho avuto a che fare con persone potenzialmente pericolose oppure ho avuto paura di non essere capace.

Come nasce il suo stile a cavallo tra fiction e documentario?
Non ho programmato le riprese. Sapevo che non volevo fare un documentario come tanti, trascurati dal punto di vista estetico e diretti da registi che non sono autori in prima linea. Il documentario di oggi nella maggior parte dei casi è rarefatto, con una distanza tra regista e soggetto addirittura superiore a quella creata nella fiction, mentre per me è necessario colmare questa lacuna. Ho cercato di ispirarmi ai reportage fotografici di guerra, in cui si rischia tutto al punto di mettere in gioco la riuscita stessa dell’intero progetto, che infatti poteva fallire varie volte. Ho girato ciak molto lunghi, anche di 30 minuti, montando il film mentalmente mentre riprendevo e solo in alcuni casi ho predisposto una messa in scena, ma solo per controllare la luce e creata senza intaccare la verità delle storie.   

Come è nata la sua carriera di regista?
In realtà io faccio il costruttore di case ecosostenibili, e fare il regista per me corrisponde all’urgenza di raccontare alcune storie. Probabilmente non ci sarei mai arrivato se gli attentati dell’11 settembre non avessero sconvolto la mia vita: lavoravo a tre chilometri dalle Torri Gemelle, facevo il consulente finanziario, lavoro che odiavo, per alcuni clienti morti nel crollo dei grattacieli, e proprio a causa di quel disastro sono stato licenziato. Vivere lo stato di assedio dell’esercito alla città più glamour del mondo, sicuramente mi ha formato e ha dato una scossa alla mia vita. Ed è stato lo stesso per l’America: è stato come tagliare la testa al serpente per farla tornare a mostrare nella sua natura più vera, quella di uno Stato guerrafondaio.

E dopo il licenziamento cosa è accaduto?
Con la buonuscita mi sono pagato un master in studi sui media, per insegnare, ma la malattia di mia suocera mi ha riportato in Texas, dove ho abbandonato i panni di professore e mi sono riciclato nel settore immobiliare. E ho iniziato a girare i miei film.

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