L’ormai certa decisione italiana, come quella tedesca, di rinnovare l’impegno militare in Afghanistan risponde alle esigenze dell’Amministrazione americana che, forse ancor prima dell’annuncio pubblico di Obama, si era già assicurata l’appoggio degli alleati. Ora manca solo che la Nato, che ha buoni motivi per farlo, formalizzi anche il suo in maniera sostanziale, trasformando le modalità operative della missione Resolute Support in una permanenza che abbia a che fare assai più con la guerra che non con la semplice formazione dei quadri militari afgani.
Le motivazioni che hanno mosso Obama le conosciamo: la presa di Kunduz da parte dei talebani, le secche del processo di pace, le spinte dei Repubblicani e di parte dei Democratici americani, le richieste — più o meno formali — di Kabul e soprattutto di Abdullah Abdullah, il presidente in seconda del governo bicefalo retto da Ashraf Ghani in cui Abdullah rappresenta soprattutto il Nord del Paese (dove Kunduz si trova) e i centri di potere della vecchia Alleanza del Nord.
Scavando un po’ però — e se la geopolitica non è un’opinione – c’è forse qualcos’altro nel risveglio americano: c’è un motivo strategico profondo che si accompagna al desiderio delle lobby militari — in America come in Europa — cui non dispiace affatto continuare una missione data per persa e per la quale invece si ricomincerà a spendere ancora molto mentre si potranno testare nuovi tipi d’arma. Facciamo un passo indietro.
Gli Usa hanno firmato con Kabul un patto si partenariato strategico sulla sicurezza che prevede di fatto il controllo su una decina di basi aeree nel Paese dell’Hindukush e la gestione totale della grande base di Baghram, a due passi dalla capitale. Le basi significano garanzia di presenza operativa in un’area strategica e soprattutto, almeno sino a qualche mese fa, un buon posizionamento in caso di una guerra con l’Iran che con l’Afghanistan confina.
Lentamente e con fatica, ma alla fine con successo, Washington e Teheran si sono però riavvicinati, raffreddando le tensioni anche sul piano militare. Dunque ci si poteva ritirare lasciando solo una piccola forza per controllare, comunque, le basi aree. Ma adesso il quadro è cambiato. Non è più Teheran a preoccupare, o meglio lo è se si pensa al suo alleato più pericoloso per Washington: Mosca. La Russia sta tentando da tempo un riavvicinamento con Kabul che in parte sta funzionando.
E non è un caso che abbia bollato la recente scelta americana come un «passo forzato … un’altra eloquente testimonianza del completo fallimento della campagna militare portata avanti per 14 anni dagli Usa e dai suoi alleati in Afghanistan».
Ai russi piacerebbe infatti una nuova forza militare che comprenda i Paesi vicini a magari la Russia stessa. Via la Nato dall’Afghanistan insomma, per far avanzare un’altra pedina sullo scacchiere mondiale che al Nord vede la crisi ucraina e al centro la nuova prova di forza in Medio oriente. Gli americani temono l’aggressività russa e conoscono e temono il piano di riavvicinamento di Mosca che in questi giorni recita un mantra ormai comune, quello dell’addestramento insufficiente delle forze armate afgane che dunque rischiano di soccombere alla forza talebana. Il gioco appare abbastanza chiaro: gli afgani sono degli incapaci e ci vuole una mano. Washington e Mosca sono pronti a offrirla.
E’ importante arrivare per primi in queste cose con la differenza che Usa ed Europa a Kabul già ci sono. Non è proprio il caso di andar via. Meglio restare, in forze, un altro po’.
Nessun commento:
Posta un commento