Non è una bella America quella che Barack Obama consegnerà, tra pochi mesi, al suo successore.
La recente strage di poliziotti bianchi, a Dallas, ad opera di un afroamericano reduce dell’Afghanistan, è diventata la classica punta d’iceberg della grave crisi razziale e sociale di un Paese spaccato a metà, segnato da tensioni e da violenze che sembravano riservate agli archivi e alla memoria, dopo l’elezione, otto anni fa, del primo presidente di colore. Ad uscirne a pezzi è l’idea stessa di un’America finalmente ibrida, fissata nel Presidente-Simbolo, in grado di rappresentare trasversalmente i bianchi ed i neri, le élite intellettuali ed i ceti popolari, le periferie e Wall Street. Obama si trova ad essere contestato sia dal nuovo movimentismo dei neri, con in testa il radicale Black Lives Matter (“Le vite dei neri contano”) sia dal candidato repubblicano Donald Trump, che ha buon gioco a parlare di un’America divisa e di un presidente che vive in un “Paese immaginario”.
E’ proprio lo scarto tra aspettative-promesse e realtà-risultati che dà il senso del fallimento della Presidenza Obama e, con essa, di una certa cultura progressista, sempre più lontana dal cuore di un Paese malato e smarrito. Non è solo un problema di polizia. Se lo fosse avrebbe ragione l’ex capo della polizia di St Louis ed oggi docente all’Università del Missouri, l’afroamericano Daniel Isom, che punta schematicamente l’attenzione sull’identikit del poliziotto americano, “prevalentemente bianco, prevalentemente conservatore, prevalentemente poco istruito”. In realtà la questione è decisamente più complessa. Ed è tutta interna alla crisi di un modello sociale e culturale, che, alla prova dei fatti, ha dimostrato non poche smagliature, a partire dall’idea stessa di integrazione che, dagli Anni Sessanta del ‘900, aveva accompagnato le diverse amministrazioni.
Oggi – numeri alla mano – il “male americano” è fissato nel gap socio-economico esistente sia tra bianchi e neri che tra i diversi strati della popolazione, indifferente bianchi e neri, dove a pesare sono il reddito, i livelli occupazionali e l’istruzione. Il 30% degli afroamericani sotto i 35 anni senza diploma di scuola media superiore si trova in prigione. Un bambino nero su nove ha un genitore incarcerato. E’ in questo contesto che cresce l’intolleranza.
Si spegne il sogno della società “meticcia”, e si moltiplicano i crimini motivati dall’odio razziale. Secondo gli studi del Center for problem-oriented politicing che cita il National Crime Victimization Survey viene a delinearsi questo quadro: dall’inizio degli 2000 gli hate crimes (i crimini motivati dall’odio sono aumentati molto tra i giovani (circa 169 mila vittime l’anno); il 90% sono motivati da scontri razziali o etnici e sono più violenti dei non hate. Un nuovo rapporto del Southern Poverty Law Center indica che nelle scuole degli Stati Uniti crescono paura e tensioni razziali: due terzi dei professori intervistati sostengono che gli studenti immigrati e i musulmani hanno paura delle elezioni di novembre, un terzo ha notato una effettiva crescita dell’intolleranza in classe e 40% evita di parlare delle presidenziali.
Nelle piazze della nuova contestazione i dimostranti di colore si riconoscono nel grido “No justice, no peace” (non ci sarà pace senza giustizia). Difficile non dare loro ragione. A patto però di individuare i responsabili veri di questa realtà: a partire da coloro che, sbandierando l’idea della società plurale ed ibrida, hanno anche assecondato l’idea moralistica che la società stessa possa, da sola, autoregolarsi sviluppando i processi d’integrazione. Così evidentemente non è stato, malgrado il presidente di colore. Con i risultati che abbiamo visto: campanello d’allarme da non sottovalutare per una realtà europea che solo oggi inizia a confrontarsi con una crisi in cui è il “colore” della pelle e delle culture a porre drammatici discrimini.
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