Il 9 novembre 2016 Stacey Moeller si è svegliata alle 3.45 come ogni mattina, animata da un inconsueto e inatteso sentimento di speranza. Il motivo? Donald Trump. In quelle stesse ore Don Stahly stava lavorando al turno di notte come sempre, quando il capo ha concesso alla sua squadra trenta minuti per festeggiare. Il motivo? Donald Trump. Stacey e Don sono due volti della stessa storia, una storia che attraversa tutti gli Stati Uniti, dagli Appalachi al Midwest fino ad arrivare alle terre culla delle tribù della Grande Nazione. È la storia dei minatori d’America, i «blue collar» del carbone, quel pezzo di maggioranza silenziosa che ha votato per Trump e per la sua controrivoluzione verde, pilastro di «America First». Ed ora questa gente vuole che il presidente mantenga le sue promesse.
Moeller è un minatore di carriera, vive a Gillette ed è veterana della Powder River Basin, sempre in Wyoming, terra incastonata nel cuore degli Usa dove un tempo convergevano le tribù Arapaho, Cheyenne, Comanche, Sioux, Shoshone e Piedi neri, per sfruttare le grandi risorse che la «madre terra» offriva. Stato dalle due anime, quella naturalistica dei parchi Teton e Yellowstone popolati da alci, bisonti e Grizzly, e delle miniere di carbone, risorsa che ancora oggi fornisce un terzo della produzione elettrica di tutto il Paese. Stacey è considerata il volto nuovo dell’industria del carbone: la miniera in cui lavora è in superficie e all’aperto, assomiglia a un grande scatolone di sabbia. E gli orari che osserva le consentono di svolgere anche i ruoli di moglie, mamma e nonna, oltre ad avere tempo per gli amici. Con oltre 30 anni di servizio in diverse miniere si considera alfiere del «Miners Pride», l’orgoglio di classe. Orgoglio ferito col giovedì nero, il giorno della fine di marzo del 2016 quando furono licenziati 465 minatori in meno di 48 ore in seguito alle nuove misure restrittive che l’amministrazione Obama stava attuando sul carbone. Una stangata per l’industria e per le economie locali di gran lunga dipendenti da quelle attività. Quasi tre settimane prima, in un Town hall della Cnn, Hillary Clinton diceva: «Faremo chiudere molte miniere e imprese del carbone». Per Stacey, una democratica di lungo corso, la scelta da fare alle urne era già chiara.
Stahly invece ha 35 anni e ha vissuto quasi interamente la sua vita a Paonia nella North Fork Valley, regione del Colorado assai ricca di carbone. Lavora nella miniera di West Elk, guadagna 100 mila dollari l’anno, ma lui rappresenta il volto antico della professione, quello del lavoro «sporco e pericoloso», svolto a chilometri di profondità nelle viscere della terra, tagliato fuori dal mondo. Il suo tempo libero lo trascorre al Legion, un bar dove al bancone c’è Pam Daugherty, originaria del Kentucky, figlia, moglie e sorella di minatori. Lei e il Legion rappresentano la grande «Miners Family», perché «un lavoro pericoloso e faticoso richiede il calore che solo una famiglia può dare». Una famiglia tradita dall’emorragia di posti di lavoro, da 950 a 220 negli ultimi sette anni, con una crisi dell’economia locale e un disinteresse delle condizioni di lavoro, «visto che per l’amministrazione passata questi nostri lavoratori erano solo meritevoli di essere liquidati». Anche in questo caso la scelta per Stahly, fondamentalmente un agnostico della politica, era fuori discussione. «Perché con Trump dalla nostra parte, - dice - possiamo sperare in nuove opportunità ma anche migliori condizioni di lavoro e di sicurezza».
«Sino adesso però l’amministrazione Trump ha fatto poco per noi». È il leitmotiv che rimbalza dal Wyoming al Colorado, dagli Appalachi alla West Coast. Certo si tratta di un processo complicato, che impone diverse moratorie ai provvedimenti presi da Obama. Il presidente un primo passo lo ha compiuto varando incentivi per lo sviluppo di nuove miniere di carbone su terreni di proprietà federale, sfruttando maggiormente le opportunità commerciali delle terre pubbliche. Obama aveva bandito la costruzione di nuove miniere su terreni federali e chiesto alle società minerarie di pagare maggiori diritti al governo, come parte degli sforzi contro il cambiamento climatico. Le terre pubbliche hanno un’estensione pari a sei volte la California, la maggior parte si trova nel West degli Usa, e con l’85% del carbone estratto da terre federali proprio nel Powder River Basin, tra Montana e Wyoming. È un buon inizio per il «popolo del carbone», che rimane disorientato dinanzi a iniziative dell’amministrazione che sembrano avvantaggiare il principale concorrente, ovvero il gas naturale. In attesa di chiarimenti prevale la speranza. Quella guascona di Stahly, «busserò Casa Bianca, se necessario». E quella guerresca di Stacey: «Siamo più fiduciosi rispetto agli ultimi otto anni. Io sono vicina alla pensione, ma se saremo traditi sono pronta a difendere le nostre miniere e il futuro dei nostri figli».
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