lunedì 4 settembre 2017

UN MODELLO PER TRUMP. R. KAPLAN, Per l’America di Trump il modello di Wilson, LA STAMPA, 3 settembre 2017

Dal nazionalismo all’interventismo democratico: senza ideali il Paese perderebbe sé stesso, il Presidente deve ispirarsi al suo lontano predecessore
Immagine tratta dal sito http://www.robertdkaplan.com/


Gli Stati Uniti, la Russia e la Cina stanno tutti perdendo, o hanno già perso, il loro scopo ideologico e spirituale. Nel caso dei regimi russo e cinese ciò è più evidente, non avendo più essi un’etica comunista e basando la loro legittimità sull’etnocentrismo e un consenso economico fragile con il proprio popolo. Ma anche gli Stati Uniti hanno perso in parte la loro missione morale. La democrazia americana è stata un esempio brillante per il resto del mondo nell’era della stampa e della macchina da scrivere, ma non è detto che continuerà a esserlo nell’epoca del digitale e del video. Ultimamente, poi, più che dare l’esempio è stata uno spettacolo di cattivo gusto. Il Congresso ha raggiunto un livello di partigianeria disfunzionale mai visto dal XIX secolo. Il presidente è privo del decoro proprio dei suoi predecessori. Washington viene amministrata essenzialmente dalle classi più abbienti, un fenomeno maturato per decenni.





Rimane un’enorme differenza tra i vincoli legali al potere presidenziale negli Usa e la violenza sfrenata del regime russo (o il trattamento dei dissidenti in Cina). Ma nessuna delle tre grandi potenze è più mossa da grandi e opposti ideali. Passo dopo passo, tornano alle origini delle loro civiltà, e i loro nazionalismi non sono altro che l’espressione delle loro forze e debolezze culturali.  

La frontiera di Jackson  
L’autoritarismo illuminato della Cina si basa sul rispetto per l’ordine e le gerarchie implicito nell’etica confuciana. Il clima freddo, la vastità incredibile e la mancanza di confini difendibili della Russia hanno reso l’autocrazia e il caos più naturali della democrazia liberale. Gli Usa invece hanno riscoperto la roccia della frontiera di Jackson, sepolta per decenni sotto le spinte wilsoniane delle sue élite urbane. Gli americani combatteranno e uccideranno se minacciati o offesi, ma salvaguardare l’ordine democratico oltre oceano potrebbe apparire loro un’impresa troppo astratta e costosa. 

I presidenti vanno e vengono. Se un numero esiguo di voti si fosse distribuito diversamente in tre Stati, oggi Donald Trump non sarebbe presidente. Ma è evidente che dopo 15 anni di guerre in Afghanistan e Iraq il progetto quasi imperiale dell’America, basato su aspirazioni elevate, è finito. Trump è certamente unico, ma è anche parte di una continuità. L’idealismo americano era figlio dello spazio geografico, che grazie alla tecnologia si sta riducendo. Le altre nazioni possono rappresentare solo sé stesse, ma l’America - entro un certo limite ragionevole - deve rappresentare l’umanità, o almeno aspirare a farlo. Ci sono stati periodi in cui non l’ha fatto, o ha cercato di farlo troppo. L’ordine mondiale liberale costruito dagli Usa in Europa e in Asia dopo la Seconda guerra mondiale è stato l’apice dell’esperienza americana. Estenderlo potrebbe essere oltre la portata degli Usa, ma ritirarsi porterebbe al declino. 

Stiamo tornando allo stato primitivo, in cui la guerra e la lotta senza morale per il territorio sono parte del Dna umano. Nello stato naturale, secondo Hobbes, la violenza è normale, e la vita è «sporca, brutale e breve». L’equilibrio tra le potenze o lo stato primitivo: non esiste altra scelta per un mondo privo di principi. I movimenti utopici o idealisti (leninismo o wilsonismo) hanno fallito o vengono abbandonati. In America il wilsonismo ha fatto parte di una cultura d’élite talmente raffinata e ridotta che i barbari infine sono arrivati e hanno spaccato le porcellane - per ricordare la teoria del filosofo del XIV secolo Ibn Khaldun su come le civiltà avanzate e sedentarie vengono rimpiazzate da quelle tribali, che a loro volta diventano avanzate e sedentarie. Ma, per quanto la nostra élite possa averci deluso, nessun Stato - democratico o meno - può restarne senza. Con tutte le sue colpe, l’élite americana, proprio grazie ai suoi valori wilsoniani, ha ancora da offrire al mondo più di qualunque altra. 

Come prevenire i conflitti  
Il terremoto politico maggiore dell’Europa fu la Guerra dei Trent’anni (1618-1648), quando il numero dei morti - in proporzione alla popolazione dell’epoca - superò i 50 milioni della Seconda guerra mondiale. La determinazione a impedirne un’altra creò l’equilibrio delle potenze. In uno spazio geografico ristretto e senza sbocchi la pace comportava la dismissione degli ideali a favore di un pragmatismo spregiudicato. Era un mondo senza ideologia. Questo equilibrio di potere amorale però non funzionava perfettamente, le alleanze cambiavano e le guerre continuavano, fino all’apocalisse wagneriana di Hitler nel 1945. Dopo, solo i grandi imperi furono in grado di mantenere la pace, nella forma dell’egemonia americana e sovietica, con sistemi missionari basati su ideali elevati (perlomeno ai loro occhi). L’egemonia occidentale venne spinta dall’integrazione economica europea, culminata in un altro impero, l’Unione Europea, che oggi nonostante tutti i suoi difetti resta l’unico sistema in grado di integrare e stabilizzare l’Europa centrale e orientale, soprattutto i Balcani ancora irrequieti. 

Come possiamo evitare le guerre e i conflitti in un mondo dove Washington e Pechino sono più vicine in tempo reale di quanto lo furono Londra e Parigi durante la Guerra dei Sette anni? Come gli israeliani, soffriremo una «crisi di spazio», pur vivendo in un mondo di missili intercontinentali, cyberguerriglia e attacchi di precisione a lungo raggio, compiuti sotto gli occhi di un pubblico globale infiammato dai video e dai social media. La vittoria andrà alla cultura che imparerà meglio a condurre una guerra rapida e totale a livello statale. Sarà un processo darwiniano. E siccome questi conflitti potranno essere terribili, il problema cruciale rimane quello della loro prevenzione.  

Una politica estera senza alti valori non ha direzione, guida o scopo, e quindi non ha grande strategia. Quali devono essere quindi i nostri principi? Null’altro che quelli di uno Stato liberale con modeste aspirazioni wilsoniane - modeste nel senso di voler promuovere, dove possibile, la società civile nel mondo. La società civile di solito significa democrazia, ma può significare dover lavorare con un autocrate illuminato perché l’alternativa sarà peggiore. Lo stesso Woodrow Wilson era prudente, un gradualista che ben comprendeva la difficoltà di imporre altrove i nostri valori, a differenza dei wilsoniani ideologici degli ultimi decenni. Fu un conservatore realista moderato, sapeva che l’essenza del conservatorismo era appunto quella di conservare l’ordine liberale, accettando un mondo in conflitto dove la sicurezza non è garantita. Il conservatorismo è sia un principio sia una tecnica per ottenere un mondo migliore. 

Guerriglia inevitabile  
Una politica estera puramente transazionale non è conservatrice, in quanto non ha obiettivi e quindi non ha limiti. Può fare qualunque cosa, vendere alleati e lanciare pericolose rappresaglie militari, è come un bambino in preda all’impulso del momento, rende difficile pensare due o tre mosse avanti. Interessi, obiettivi, valori richiedono una road map con una visione. In un mondo con grandi eserciti, marine e aviazioni che operano in uno spazio sempre più confinato, il transazionalismo comporta molti più rischi del wilsonismo.  

La guerriglia è implicita nella condizione umana. La guerra postmoderna, con l’uso di armi convenzionali, informatiche e perfino nucleari a contaminazione ridotta, sarebbe impossibile da limitare. La connettività farà migrare rapidamente i conflitti regionali. Il reame della cyberguerra, dall’hackeraggio al furto di documenti su larga scala, dimostra che, invece di evolversi, la natura umana resta perversa, aggressiva e maligna. L’assenza di uno scontro faccia a faccia non fa che aumentare la crudeltà. Le guerre del futuro riusciranno a demoralizzarci senza ucciderci, e presto perfino Paesi grandi come un continente affronteranno la crisi dello spazio. 

Ma dobbiamo affrontare anche un’altra crisi: per cosa stiamo combattendo? Può sembrare una domanda assurda: in fondo, siamo americani, abbiamo una patria e una geografia dettata dalla storia. Ma con la tecnologia che riduce le distanze i nostri aeroporti diventano semplici stazioni di autobus, e sempre meno americani ne sono coscienti. Le crisi mondiali che ossessionano ogni giorno il Pentagono e le élite politiche non hanno un grande riscontro, a meno che la violenza non bussi alla porta. La strategia «America First» di Trump, se non si evolve in qualche forma di wilsonismo, rappresenta non il rinnovamento del nazionalismo e della politica estera americana, ma il loro canto del cigno, e invece di una maggiore unità produrrà una nuova divisione. 


Traduzione di Anna Zafesova  

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