I due volti del crimine appartengono, entrambi, a Robert De Niro. Barry Lewinson – autore di grandi film, Oscar da regista per Rain man – L’uomo della pioggia ha ingaggiato l’attore, con cui aveva girato Sesso e potere. Il film – in sala con Warner Bros - segue le vicende di due dei più noti boss della criminalità organizzata di New York, Frank Costello (De Niro) e Vito Genovese (De Niro), intenti a contendersi il controllo delle strade della città. Un tempo migliori amici, piccole gelosie e una serie di tradimenti li mettono in una rotta di collisione mortale che cambierà per sempre la mafia (e l’America). “Il film – racconta il regista in una intervista su zoom - segue il percorso del conflitto tra Vito e Frank, portando fino al vertice, che in effetti era il piano di Frank per porre fine alla mafia su scala nazionale. Questi elementi si basano su eventi reali che hanno portato alle indagini negli Stati Uniti nei primi anni Sessanta. Per quanto riguarda i fatti storici, il film è abbastanza fedele alla realtà. Ovviamente, i dialoghi e molte altre cose fanno parte del processo cinematografico e del modo in cui abbiamo voluto raccontare i personaggi”.
Lei ha detto che è un film sul passato, ma secondo lei esiste ancora oggi un certo modo di pensare mafioso, un atteggiamento tipico della mafia? Quanto è presente nella società attuale? Penso, ad esempio, all’incontro alla Casa Bianca tra Trump e Zelensky?
“Non so se si possa parlare specificamente di mentalità mafiosa. È qualcosa che fa parte della natura umana. È un tratto che si ritrova nel modo in cui gli esseri umani interagiscono tra loro, tra gruppi o tribù, se vogliamo chiamarli così. Credo che sia qualcosa di radicato nella storia dell’umanità, più che una caratteristica esclusiva della mafia”.
Questa storia girava a Hollywood fin dagli anni Settanta. Quando ne è venuto a conoscenza? E come è riuscito finalmente a realizzarla e a ottenere una distribuzione nelle sale?
“Ha ragione, erano già stati scritti degli script negli anni Settanta, ma non riuscivano mai a trovare la giusta chiave narrativa, quindi il progetto è rimasto fermo per tutto quel tempo. Circa cinque anni fa, ho incontrato Nick Pileggi, che stava lavorando a una nuova bozza. Era durante il periodo del COVID e abbiamo iniziato a parlarne. In origine, la sceneggiatura si concentrava solo su Frank Costello. Poi, in un modo o nell’altro—forse parlando con Nick—abbiamo iniziato a discutere di Vito e del loro rapporto d’infanzia, di come con il tempo abbiano preso strade opposte. Questo ha cambiato la prospettiva e ci ha dato un conflitto più profondo da sviluppare nel film".
Quando ha deciso di affidare entrambi i ruoli a Robert De Niro?
“È stato il produttore Irwin Winkler a suggerire Bob per entrambi i ruoli. Ricordo che stavamo parlando e lui mi ha chiesto: “Cosa ne pensi di Bob per Vito e Frank?” Io ho riflettuto un attimo e ho risposto: “Stiamo parlando di Robert De Niro, uno dei più grandi attori della storia del cinema. È un’idea interessante. Vediamo cosa ne pensa lui.” Bob ha trovato la proposta stimolante e, da quel momento, abbiamo iniziato a lavorare sulla differenziazione tra i due personaggi. Ci è voluto un anno e mezzo prima di arrivare finalmente a girare il film, ma è stata una sfida che Bob ha affrontato con grande dedizione. Lui non si accontenta mai, lavora in modo estremamente preciso, e abbiamo affinato i dettagli dei personaggi fino al giorno delle riprese”.
Non è comune vedere un film con un cast in cui molti attori hanno più di 70 anni. Hollywood sembra ossessionata dalla giovinezza. Quanto è stato importante per lei fare un film che va in controtendenza rispetto a questa tendenza?
“Non ci ho pensato in questi termini. La storia richiedeva questi personaggi e questi attori, e il nostro obiettivo era raccontarla nel miglior modo possibile. Non abbiamo fatto scelte basandoci su criteri di età, ma solo su ciò che era giusto per il film”.
Lei ha già lavorato con De Niro. Ha parlato delle difficoltà che ha affrontato nei due ruoli. Ma quanto è stato impegnativo per lei, e quanto è stato coinvolto nel modellare ciascuna delle sue interpretazioni?
“Ne parlavamo continuamente. Per esempio, nelle scene in cui Vito e Frank si incontrano—che nel film sono solo due—abbiamo fatto molte prove, anche durante la pausa pranzo, per rivedere i dialoghi, cambiare dettagli e perfezionare il tutto. Non ci siamo mai limitati a presentarci sul set e girare. Anche il trucco ha richiesto tantissimo lavoro: provavamo costantemente nuove soluzioni per rendere credibile la distinzione tra i due personaggi”.
De Niro era diverso nei giorni in cui interpretava Vito rispetto a quelli in cui era Frank?
“Bella domanda. Bob ha avuto un’idea molto interessante: non voleva che un supervisore di sceneggiatura gli leggesse le battute fuori campo. Voleva recitare con un vero attore. Così ha scelto una persona che interpretava Frank quando lui era Vito, e viceversa. Questo gli permetteva di avere un’interazione più reale e spontanea”.
Lei è stato spesso definito un maestro della narrazione americana. Si riconosce in questa definizione? E cos’è per lei la narrativa americana classica?
“Non ci penso in questi termini. Scelgo le storie che mi interessano, che siano quella di una famiglia di immigrati in Avalon o la vicenda di un uomo autistico in Rain Man. Sono attratto da temi che possano coinvolgere il pubblico. Non parto mai con l’idea di raccontare una storia “americana” in senso stretto, ma sempre con quella di esplorare i personaggi in un certo contesto”.
Ha citato Avalon, che quest’anno compie 35 anni. Lei è uno dei più importanti registi ebrei americani e ha raccontato spesso l’identità ebraica, l’antisemitismo, l’assimilazione e la Shoah nei suoi film.
“Sulla questione dell’antisemitismo, direi che purtroppo non è qualcosa di nuovo nella storia dell’umanità. Periodicamente, con modalità e intensità diverse, riemerge questo fenomeno e sembra quasi essere una costante del nostro modo di vivere come società. La cosa che mi sconvolge, e che onestamente non riesco a comprendere, è il motivo per cui noi esseri umani siamo così divisi e così inclini al conflitto. Le racconto un episodio che mi ha colpito molto. Qualche anno fa mi trovavo su un’isola delle Hawaii, una di quelle più piccole, ed era una giornata di pioggia. Nel mio hotel c’era un libro sulla storia dell’isola e, sfogliandolo, ho scoperto che in passato si era combattuta una guerra tra due fazioni rivali. Ho pensato: Ma come è possibile? Siamo in paradiso! In un posto del genere, con spiagge meravigliose, natura incontaminata, un clima perfetto… eppure, anche qui gli esseri umani hanno trovato un motivo per combattersi? È stato uno di quei momenti in cui ti rendi conto che la conflittualità è quasi inscritta nel nostro DNA, come se l’uomo fosse programmato per trovare sempre una giustificazione per entrare in guerra, per creare divisioni, per stabilire un “noi” e un “loro”. Mi chiedo spesso se riusciremo mai a superarci, a evolvere, a raggiungere un livello di consapevolezza in cui smettiamo di vederci come avversari e iniziamo a vivere semplicemente come esseri umani. Perché continuiamo a combatterci per differenze che, in fondo, non hanno alcun senso? È una domanda che mi perseguita da anni e per la quale, purtroppo, non ho trovato risposta”.I
l film racconta anche la storia degli Stati Uniti, dalla Proibizione fino ai giorni nostri, con una prospettiva che sembra differente rispetto alla narrazione classica. “L’obiettivo era proprio quello: mostrare alcuni aspetti della storia americana e, ancora più importante, rendere visibile la mentalità di questi personaggi, il modo in cui vedevano il mondo. Ad esempio, il personaggio di Vito ha un momento in cui dice chiaramente: “Di cosa stiamo parlando? Il governo è corrotto!”, come se volesse sottolineare che non c’è alcuna differenza tra il crimine organizzato e le istituzioni ufficiali. Una scena in particolare mi sembrava fondamentale per far emergere questo punto di vista: il momento in cui i boss mafiosi stanno guardando in televisione le audizioni della Commissione sul Crimine Organizzato. I personaggi osservano i politici e i funzionari governativi che vengono interrogati e commentano dicendo: “Guardate cosa hanno fatto questi qui! Hanno rubato, truffato, si sono presi tutto… sono peggio di noi! Sono più ipocriti di noi!” Quello era un modo per ribaltare la prospettiva e mostrare come la mafia stessa vedesse il governo come un’organizzazione criminale ancora più spietata, ma con il vantaggio di essere legittimata dalla legge. C’è poi un altro passaggio che considero essenziale: quando uno dei personaggi fa riferimento al modo in cui il governo americano ha trattato i nativi. Guardate cosa hanno fatto agli indiani! Gli hanno tolto tutto! È un’accusa che rende evidente come questi uomini non vedano il loro operato come un’eccezione o un’anomalia, ma come la prosecuzione di una lunga storia di potere, sopraffazione e sfruttamento. Quello che volevo raccontare, insomma, è che la storia americana non è fatta solo di eroi e criminali ben distinti, ma di una zona grigia molto più ampia e complessa. La distinzione tra giusto e sbagliato, tra buoni e cattivi, è spesso molto più sfumata di quanto ci piaccia credere. La verità è che il crimine organizzato, la politica, l’economia… tutto è intrecciato in un unico grande sistema di potere, in cui chi è al comando trova sempre il modo di giustificare le proprie azioni, indipendentemente da quanto possano essere discutibili. E questo vale oggi come valeva allora”.
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