domenica 30 ottobre 2011

STEVE JOBS. Pareri controversi sull'operato del manager della Apple morto a 56 anni

PICCININI A.
ROBECCHI A.
VECCHI B.
PICCIONI F. IL MANIFESTO, 7 ottobre 2011
MASTROLILLO P. LA STAMPA, 10 ottobre 2011
D'ERAMO M., IL MANIFESTO, 9 ottobre 2011
CASTIGLI M. , GUNPANIA, 7 ottobre 2011
JOBS S., IL CORRIERE DELLA SERA, 3 giugno 2010
INSIDETHEGAME, SILICIO, SANGUE E SUDORE: IL CASO FOXCONN
STEVE JOBS E JAY YEREX: SCAMBIO DI EMAIL SUI SUICIDI FOXCONN
BRAGHIERI M., LINKIESTA, 9 maggio 2010

 
PICCININI A., Un borghese rivoluzionario, IL MANIFESTO, 7 ottobre 2011
Ossimoro numero 1. Steve Jobs era un «rivoluzionario capitalista». E prima di tutto aveva smanettato e svalvolato nel garage di casa sua, secondo la leggenda del nerd e del rocker americano. Ispirato a detta dei suoi biografi: dai Beatles (Apple), dall'Lsd, dalla meditazione buddista. Il suo nome figurerebbe ancora bene in quella parte del Manifesto in cui un ispiratissimo Marx celebra, in un elenco che lascia senza fiato, le virtù rivoluzionarie della borghesia. Prima fra tutte «aver creato un mondo a propria immagine e somiglianza». O no?
Il ricorso a Marx è necessario, di fronte a uno che ci ha cambiato la vita, e non a parole. A essere liceali fino in fondo, ma il momento lo richiede leggendo e scorrendo i tributi in Rete dedicati allo scomparso fondatore di Apple, proprio l'averci cambiato la vita dalla a alla z in poco più di quindici anni (del personal computer ai gadget derivati: ipod, ipad), non ha forse assolto l'umanità dall'ironia leopardiana sulle «magnifiche sorti e progressive»?
Qui sul pianeta Terra abbiamo guadagnato intere dimensioni spazio-temporali, grazie al lavoro e alla creatività di Jobs. E oh yes possiamo connetterci a facebook e a youtube mentre camminiamo per strada e, se non ci facciamo vedere dai vigili, dalla macchina e dalle bici. Compulsare notizie e spedire mail mentre il pupo gioca. Finché il pupo non vuole giocare con l'ipad, e ci gioca, che sembra fatto apposta, sta pure tanto buono.


Ossimoro numero 2: Jobs era un «capitalista rivoluzionario». Una ricerca pubblicata due giorni fa la devo citare per intero nella versione uscita sui giornali: «La passione per l'iphone è come il vero amore (...) Di fronte ai prodotti Apple il cervello degli aficionados ha impulsi simili a quelli che un fedele prova di fronte alla foto del papa». Da anni siamo avvolti nella morbida macchina del mondo Apple con le sue apps, facili, troppo facili. Qui persino il gesto apparentemente più dirompente di tutti rispetto alle gerarchie e alla piramide del mercato culturale, e cioè il download selvaggio, la rete del peer-to-peer, è stato riportato nell'alveo del mercato con i-tunes. 99 cent il pezzo. È pura pedagogia capitalista questa, contro il mettere le mani in pasta, contro il gratuito spaccare le vetrine, o cos'altro è? Puoi fare tutto, cioè no. Quasi tutto.
Cinquantasette canali e niente da vedere, riassumeva Springsteen molti anni fa. E il regista Jean Luc Godard, torvo eremita senza telefono cellulare Godard, in una delle sue rare interviste uscita soltanto per caso ieri su Repubblica: «C'è una specie di inerzia sciocca dinanzi al predominio della tecnologia». Continuava, citando Dostoievskij: «Ognuno può fare in modo che non esista un Dio, ma nessuno lo fa». Dunque Jobs = lavori. «Il vecchio telefono - ha detto il regista - è come il rapporto tra un cane e un padrone uniti da un guinzaglio». Ma col telefonino «ci sono due cani e due padroni. Il cane controlla il padrone e insieme è vero il contrario».


Il problema, davanti alla morte inattesa, non è solo quello di celebrare la grandezza e il genio di uno, ma di capire se un altro mondo sarebbe stato possibile per tutti. E quale, nel caso. Ci viene in soccorso un ultimo paradosso. Ha scritto un ricercatore dell'Università di Yale, David Hassanpour, a proposito delle moderne rivoluzioni via computer, riferendosi in particolare a piazza Tahrir: «Se vengono meno improvvisamente i canali di comunicazione regolari, a distanza, la gente dovrà uscire di casa e ricorrere alle comunicazioni faccia a faccia per sapere cosa sta succedendo. E i radicali avranno più occasione di convincere gli altri».
Spegnere, Spegnere tutto. Non sarà più rivoluzionario?


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ROBECCHI A., Buongiorno sono Steve Jobs

Belle, belle, molto commoventi le celebrazioni del genio dopo la morte di Steve Jobs. Solo una cosa. Ma vi immaginate se Steve Jobs fosse vissuto in Italia?
Buongiorno, sono Steve Jobs, vorrei inventare un computer, mi affitta un garage? Sì, bravo, e poi i cinesi che mi cuciono le camicie in nero dove li metto? Ma quanti anni hai, Steve Jobs? Diciassette? Ma pensa alla figa, va', vai a giocare a pallone!
Quando Steve Jobs ha inventato il mouse, è andato alla Xerox e ha chiesto: mi fate vedere il vostro reparto ricerche? Prego, si accomodi, se vede qualche idea buona la usi pure. Ve lo immaginate qui? Buongiorno, sono Steve Jobs, mi fareste parlare con qualcuno del reparto ricerca e sviluppo? Senta Jobs, ci lasci lavorare, al massimo può parlare con il reparto pulizie e call center, anzi ci mandi il curriculum, le faremo sapere...
Buongiorno, sono Steve Jobs, avrei inventato un computer piccolino... No, guardi, la fermo subito... suo padre inventava computer? Ha qualche parente che inventava computer? Conosce un sottosegretario? No? Senta, perché non fa domanda alle poste?
Buongiorno, sono Steve Jobs, guardi qui, ho inventato il mouse! Ma è matto? E noi che facciamo computer senza mouse, vuole rovinarci? Senta, facciamo così, le diamo una scrivania da impiegato, lei sta lì, basta che non inventa niente, d'accordo?
Buongiorno, sono Steve Jobs, guardi qua che telefono che ho inventato! Mi ascolti bene, giovanotto, noi con i telefoni col filo e con la rotella per fare i numeri ci troviamo benissimo.
Buongiorno sono Steve Jobs, avrei inventato questa tavoletta... Ah, e il mouse dov'è? Non c'è, guardi, basta toccare lo schermo. Ma è scemo? Ma lo sa quanti mouse vendiamo noi?
Steve Jobs, il genio visionario! Ecco, giusto, visionario. Qui avrebbero chiamato la polizia.

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VECCHI B., L'abbraccio globale al guru della realtà digitale

Gli Stati Uniti piangono il primo santo laico di questo inizio di millennio. La morte di Steve Jobs ha infatti suscitato un vero e proprio movimento spontaneo di uomini e donne che sono andati in pellegrinaggio, armati iPod e iPad alzati verso il cielo, alle cattedrali da lui volute, gli Apple Store. In molti, a New York o a Palo alto, dove Steve Jobs abitava, hanno deciso di vegliare per tutta la notte il carismatico capo della Apple. Anche la Rete si è fermata, inondata di messaggi, post, articoli, ricordi. Bill Gates, fondatore della rivale Microsoft e suo antico avversario negli affari, gli ha dedicato un affettuoso ricordo. Mark Zuckeberg di Facebook ha dipinto Jobs come un maestro di vita; Larry Page e Sergej Brin di Google hanno scelto una forma sobria, ma egualmente deferente. Il nome di Steve Jobs era posto sotto la barra della ricerca nella home page di Google.

Mai si era visto in Rete un link diretto di un'impresa al suo diretto concorrente. Più che un santo laico, per Steve Jobs si dovrebbe parlare di guru, vista la sua passione per la filosofia orientale. Una passione nata a metà degli anni Settanta a San Francisco, quando gli echi della controcultura giovanile non erano ancora stati travolti dall'ondata reaganiana che, partendo proprio dalla California, da lì a poco avrebbe investito gli Stati Uniti. Steve Jobs non aveva frequentato grandi università, ma era stato segnalato alla Hewlett-Packard, dove aveva iniziato a lavorare con Steve Wozniak.

La leggenda di Apple nasce proprio con questo incontro. È stata molte volte narrata, arricchendosi via via di dettagli ma l'avvio vede sempre un gruppo di ragazzi che si riunisce in un garage per costruire qualcosa che cambierà il mondo. Tra quel gruppo di ragazzi girava una fanzine in cui venivano magnificate le possibilità offerte da una macchina per fare calcoli che però poteva essere programmata anche per fare altro. La parola d'ordine che campeggiava, polemica verso il modello dominante nell'informatica rappresentato da Ibm, era «computer al popolo». Jobs e Wozniak riescono tradurre quell'utopia tecno-sociale in un computer. Apple II nasce così.

È allora che emerge la grande capacità di Steve Jobs di pensare a una macchina comunicativa di uno stile di vita, di una «cultura». Massima attenzione al design e alla promozione dell'oggetto, fattori che fanno sempre riferimento a un'attitudine antiautoritaria e critica verso il «sistema», sinonimo di strutture gerarchiche e annichilimento della creatività individuale. Lo stile dei computer Apple è unico, riconoscibile. Un'attenzione quasi maniacale che coinvolge lo schermo, la tastiera e i colori. Sempre sobri. Un bianco virginale o un nero lucido che cattura l'attenzione. Insomma hanno un glamour che fa sembrare gli altri computer un grigio assemblaggio di ferraglia. La scelta del logo strizza invece l'occhio alla cultura underground informatica: la mela morsicata è interpretata come omaggio a Alain Touring, il matematico che si tolse la vita mangiando appunto una mela avvelenata dopo le vessazioni subite dai servizi segreti inglesi, che lo avevano di fatto sequestrato per la sua omosessualità e per aveva espresso la volontà di rendere pubbliche alcune ricerche top secret.

Steve Jobs è stato un grande innovatore, cioè colui che riesce a combinare saperi specialistici già noti in forma creativa. Attitudine che lo ha portato a fare il primo errore. L'ascesa di Apple nell'Olimpo degli affari non tollerava l'indifferenza a quanto accadeva nel settore produttivo in cui operava. Ibm era stata messa ai margini da Microsoft, che stava imponendo uno standard nei sistemi operativi attraverso un accordo con Intel, cioè la società leader nella produzione dei microprocessori. L'indisponibilità di Jobs a confrontarsi con la nuova realtà che aveva contribuito a creare gli costa l'emarginazione in Apple. Se ne va, ma non torna a casa. Nel frattempo, infatti, contribuisce a far crescere la Pixar. Poi torna alla Apple, perché chiamato a salvare la sua creatura dal fallimento. Il resto è storia recente. iPod, iPhone, iPad. E Apple diventa una delle imprese più ricche del mondo.

E qui la seconda innovazione introdotta da Steve Jobs. È convinto che deve fare leva su un «marketing virale» che ha come vettori la comunità dei consumatori Apple. Favorisce la nascita su Internet di forum di discussione, li invita a suggerire come migliorare i prodotti - da questo lavoro gratuito nascono molte apps, le applicazioni che fanno impazzire gli amanti dei nuovi prodotti. Apple deve diventare un brand che è anche uno stile di vita. In questo, Steve Jobs compie un'operazione che differisce da quanto accade nella cosiddetta «economia del logo». La Nike punta infatti allo swoosh come rispecchiamento della cultura di strada. La Apple di Steve Jobs compie un ribaltamento del punto di vista. Il brand, per Steve Jobs, deve avere una funzione pedagogica: chi acquista un iPod o un iPhone o un iPad deve fare suoi valori, attitudini, linee di condotta elaborati da altri. Dall'impresa, certo, e poi da quella base materiale che sono i consumatori. Per questo, Jobs punta sugli Apple Store, luoghi di culto in cui i commessi recitano le meraviglie dei prodotti Apple come un mantra che fa accedere al Nirvana. Omettendo però il fatto che le macchine Apple sono prodotte là dove il costo dei lavoro è basso, come accadeva alla Foxconn cinese, diventata nota per il suicidio di molti operai schiacciati dalle condizioni quasi schiavistiche del loro lavoro.

Steve Jobs è stato sensibile alle critiche. E ha dichiarato solennemente che non avrebbe mai più fatto affari con imprese che violavano i diritti umani. In fondo, in patria, era un sostenitore di Obama e ritenuto il simbolo dell'imprenditore «democratico» in contrapposizione a Mark Zuckeberg di Facebook, considerato imprenditore spregiudicato e «repubblicano» perché fa affari trasformando in merce i profili individuali del suo social network. La dichiarazione di indisponibilità della Apple nel voler produrre negli sweet shop è però spesso rimasta solo un intento, visto che si sono moltiplicate le denunce delle condizioni di lavoro nelle imprese che producono per la società di Cupertino.

Steve Jobs è stato inoltre indifferente verso chi accusava Apple di sviluppare prodotti proprietari, il contrario cioè di quanto sostengono gli esponenti dell'open source e del free software. Anzi ha più volte rivendicato la difesa della proprietà intellettuale. In fondo, si deve a lui, attraverso iTunes, che scaricare la musica dalla Rete pagando sia diventato un modello di business. Una scelta in favore della proprietà intellettuale che è stata stigmatizzata come un tradimento della vision libertaria delle origini. Ma questo non ha significato una perdita di appeal per la Apple, che è diventata nel corso degli ultimi due anni una delle società globale che si rivolte a un pubblico globale. E le sue quotazioni in borsa sono ancora alle stelle, anche se molti sono i dubbi sulla capacità del suo successore di fronteggiare un habitat, la Rete, turbolento e fortemente competitivo.

In un discorso tenuto poco tempo fa a Stanford, che può essere considerato il suo testamento spirituale, Jobs invitava i giovani a perseguire e a lottare per i loro sogni. Parole commoventi. Basta però intendersi per quale realtà valga la pena battersi.


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PICCIONI F.,

L'idea geniale e semplice: «Un computer per chi non sa nulla di computer»

Prima di lui il computer «parlava» attraverso uno schermo nero. Dopo averlo accceso, in alto a sinistra compariva una stringa criptica - c:\ - e chi voleva usarlo doveva sapere cosa «chiedergli». L'elenco dei comandi da mandare a memoria (in DrDos, MsDos, Unix, ecc) era piuttosto lungo, complicato da numerose sottofunzioni e stringhe di testo. Al massimo ci si poteva servire di uno o due programmi - videoscrittura, avviando l'estinzione della dattilografia (e vari milioni di posti di lavoro), o il «foglio elettronico» per i ragionieri contabili. Sontanto chi aveva competenze vere di informatica riusciva a usarlo appieno. Uno strumento di nicchia, per cervelloni vagamente asociali, un mercato dai numeri limitati.
L'innovazione per cui Steve Jobs meriterà un monumento è racchiusa in un'idea semplicemente geniale: «il computer per chi non sa usare il computer». Quasi cento anni dopo ha rappresentato l'equivalente de «l'automobile per chi non sa nulla di meccanica».
Gli innovatori - anche nella storia delle teorie scientifiche - sono coloro che connettono insieme acquisizioni che vivevano tranquillamente separate. Anche nel caso di Jobs c'era già tutto: scheda madre, hard disk, ram, scheda video, sistemi operativi. La sua «aggiunta» si è concretizzata in un «ambiente grafico», dove i singoli componenti dell'hardware e i programmi venivano rappresentati in icone distinguibili, e un mouse per puntare l'area dello schermo da cui attivare le applicazioni.
Una rivoluzione. Improvvisamente tutto quel che c'era nella macchina diventava visibile e utilizzabile. Da chiunque. Non era necessario «sapere» quasi nulla sulla complessa struttura sottostante. Bastava «navigare» col mouse e cliccare. Bastava, in altri termini conoscere soltanto il proprio mestiere e utilizzare «il ferro» per farlo più rapidamente, precisamente. Meglio. I primi a capirlo e a innamorarsene perdutamente furono i grafici (dall'editoria al cinema), finalmente liberi dalle montagne di carte e di schizzi attraverso cui erano soliti partorire il prodotto finito. Seguirono i musicisti e decine di altri mestieranti di talento: tutti potevano finalmente concentrarsi soltanto sull'idea che volevano sviluppare. Il «Mac» gli dava tutti gli strumenti possibili, in vorticoso aumento di anno in anno.
Era una rivoluzione. Per di più «oggettivamente democratica». La tecnologia veniva bypassata - e blindata, nel caso della Apple, con un sistema operativo proprietario che selezionava a monte gli sviluppatori di applicazioni autorizzati a conoscere le «librerie dinamiche» - la creatività vedeva praterie sterminate davanti. Il mercato dei personal computer poteva finalmente svilupparsi a un ritmo da «terza rivoluzione industriale», abbattendo i costi con economie di scala colossali e conquistando decine di milioni di nuovi clienti ogni anno. I concorrenti - Microsoft in testa - furono costretti ad adeguarsi correndo. Copiando, in genere. Ma senza mai poter raggiungere la qualità dei «Mac». L'eterna inquietudine di Jobs ha imposto ai suoi prodotti continui salti in avanti nella «fruibilità». Non si accontentava del semplice aumento della potenza di calcolo (permessa dal raddoppio della velocità di clock ogni 18 mesi, per decenni). Ogni nuova generazione di oggetti doveva stupire, per polivalenza d'impiego e semplicità d'uso. Quindi per ampliamento delle possibilità individuali.
Questo risultato è una rivoluzione culturale irreversibile, finché ci sarà energia elettrica e reddito sacrificabile per i gadget elettronici. Con aspetti non sempre progressivi (molto di quello che si è guadagnato in «estensione» è andato perduto in «profondità»), ma irreversibili. Perché l'innovazione non ha mai una faccia sola.


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MASTROLILLO P., "Jobs mi fece a pezzi perché il programma non funzionava"

INVIATO A SAN FRANCISCO
E allora Steve mi disse: sei licenziato Charles, non ti voglio più vedere qui». Non capita spesso di sentire qualcuno che parla allegramente, quasi con orgoglio, della propria cacciata da una compagnia. Se però la compagnia si chiama Apple, chi ti mette alla porta è Steve Jobs, e dopo qualche giorno ti riassume, il gioco può diventare curioso. Charles Jolley, ex JavaScript guru di Cupertino e responsabile del progetto MobileMe, è stato vittima per due volte delle celebri sfuriate di Steve, che in genere si concludevano col licenziamento. Entrambe le volte è stato riassunto, fino a quando ha lasciato lui la Apple per fondare la propria compagnia, Strobe.

Ora che è fuori, può infrangere la leggendaria riservatezza di Cupertino, e portarci direttamente nella stanza di Jobs.

Com’era lavorare con lui?
«Straordinario, davvero. Per l’intensità che ci metteva, la creatività, la cura per ogni dettaglio. Spingeva sempre tutti a dare il massimo».

Quante ore lavoravate?
«Quante ne servivano. Se stavi finendo un prodotto, non c’era bisogno che qualcuno ti dicesse di fare le nottate».

Che clima c’era nel campus?
«Colleghi pronti all’amicizia e alla collaborazione, ma anche severamente esigenti. Faccio un esempio pratico. Nelle altre aziende, quando prepari un prototipo, in genere è sempre un po’ ammaccato. Alla Apple non avresti il coraggio di farlo vedere, se non funzionasse già alla perfezione».

Jobs lo vedevate spesso in giro?
«Era molto gentile e gioviale tutta la settimana, veniva anche a pranzo con noi. Il lunedì, però, cambiava tutto».

Cioè?
«Ogni lunedì faceva la revisione dei prodotti: quello era il momento più atteso e più temuto da tutti noi. Quando entravi nella sua stanza, cercava come un laser qualcosa che non gli piacesse del progetto che presentavi. Se non la trovava, diventavi un eroe: ti trattava come la persona che aveva appena inventato la ruota e decantava tutte le potenzialità straordinarie della cosa che gli avevi portato. Se invece trovava un minimo dettaglio, anche solo il colore, che non andava, eri finito. Non parlava più di altro, fino a quando il problema era risolto. E se non lo risolvevi, ti faceva a pezzi. Letteralmente: ti lanciava i pezzi del prodotto. Non c’erano mai vie di mezzo. Non esisteva una cosa che fosse semplicemente ok: o era sublime, o faceva schifo».

È capitato anche a lei?
«Certo. Il mio team era incaricato di sviluppare MobileMe, il predecessore di iCloud, che francamente non funzionava: mi fece a pezzi. Però si prese tutte le sue responsabilità, e una volta distrutto il prodotto che avevo portato, mi diede indicazioni precise e chiare su come ripartire. Ecco, la sua forza era questa: si poteva cadere, ma l’importante era sapersi rialzare».

Perché la licenziò la prima volta?
«Non gli era piaciuto un prodotto, mi cacciò».

E la seconda?
«Avevo fatto un’intervista autorizzata da Steve per presentare un nuovo progetto. Ma lui, come sapete, era molto riservato con i media. Il giornalista scrisse delle mie frasi fuori contesto, che a Jobs non piacquero. Mi fece chiamare da un vice presidente che mi chiese: “Charles, Steve dice che ti devo licenziare, cosa è successo?”. Risposi: “Ho rilasciato l’intervista che mi aveva chiesto di fare. E lui: peccato, non gli è piaciuta”».

E poi?
«Mi fece richiamare dal vice presidente e mi disse: stai un po’ a casa a riflettere, e vediamo come aggiustare le cose. Qualche giorno dopo mi riassunse».

Perché è rimasto?
«Si lavorava un sacco e si guadagnava poco, ma tutto quello che facevi aveva un impatto sul mondo».

Poi però lei è andato via e ha fondato Strobe, che distribuisce applicazioni e rappresenta anche una sfida intellettuale ad Apple.
«Loro sono i migliori a fare prodotti originali chiusi e devono restare così, ma poi arriverà sempre qualcuno che li aprirà al mercato».

Su cosa si butteranno, adesso?
«Hanno prodotti nuovi già pronti per i prossimi due anni, e iPad ha ancora possibilità infinite di sviluppo. La prossima sfida, però, sarà la televisione. Apple Tv è già interessante, ma provate ad immaginare una televisione che unisce tutte le qualità dei prodotti di Cupertino, Internet e le applicazioni. Sarà una cosa unica, che cambierà di nuovo il mondo».

La Apple sopravviverà senza Jobs?
«Sul piano organizzativo Tim Cook, il nuovo ceo, è il migliore che ci sia, mentre il capo del design, Jony Ive, è un fenomeno. Steve, però, aveva un ruolo unico: capiva cosa voleva il pubblico e decideva come produrlo. La disciplina che ha instillato nella compagnia continuerà a farla muovere, ma Apple dovrà trovare in fretta una persona o un meccanismo che indichi la direzione».

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Marco d’Eramo, Steve Jobs e Edison, divergenze parallele

Il manifesto, 9 ottobre 2011

«Ha reso questo mondo un posto migliore in cui vivere e ha portato quelli che una volta erano considerati lussi nella vita dei lavoratori. Nessuno nella lunga lista di coloro che hanno beneficiato l’umanità ha fatto di più per rendere l’esistenza facile e comoda». Non è Steve Jobs di cui si parla, bensì Thomas Alva Edison, e queste frasi non sono state scritte l’altroieri, ma ottant’anni fa, esattamente il 18 ottobre 1931 nell’elogio funebre a firma di Bruce Rae che ne pubblicò allora il «New York Times», intitolato Il mondo reso migliore dalla magia di Edison (Fece più di ogni altro per immettere i lussi nelle vite delle masse).
È interessante paragonare le due retoriche che corrispondono non solo a due generi diversi di innovazione tecnologica, ma anche a due stadi differenti della civiltà dei mass-media per due innovatori/capitalisti, cioè per imprenditori che personificano ambedue l’idea del prometeico industriale schumpeteriano, ma in modo totalmente divergente. Certo, una differenza decisiva, che spiega almeno in parte i toni diversi, è che Edison (1847-1931) morì dopo una lunga vita e molti anni dopo che le sue invenzioni erano state rese invisibili dall’abitudine, mentre Steve Jobs è morto relativamente giovane (56 anni) dopo una lunga, pubblica battaglia con un tumore la pancreas, quando le sue innovazioni furoreggiano ancora per la loro «novità».
Ma non è solo per l’età avanzata che negli obituaries di Edison manca la lacrimosità versata invece in abbondanza (e in misura assolutamente bipartisan, da destra e da sinistra) per Steve Jobs, un commuoversi a buon mercato che ricorda altre ondate di (effimeri) struggimenti, quale quello per Lady Diana, e che quindi corrisponde a una figura nuova per i capitalisti o per gli industriali, quella del «divo». Né Edison, né Henry Ford (altro grande innovatore) furono mai star: certo furono famosissimi al loro tempo, ma la natura della loro fama era molto lontana da quella di un divo appunto, assomigliava più a quella di un grande generale (uno Sheridan o un von Moltke) che a quella di un artista di successo.
In questo senso si può dire che il rituale funebre di Edison era tutto immerso nell’idea di progresso, quello di Jobs è invece il trionfo del capitalismo postmoderno (basato sull’eleganza, sull’essere accattivante, oltre che sulla praticità). Dipende in parte dalla natura delle innovazioni di Edison che furono anch’esse, come quelle di Jobs, in gran parte migliorie di invenzioni preesistenti: Edison non fabbricò la prima lampada elettrica a incandescenza, bensì la prima lampada a incandescenza commerciabile. In questo senso contribuì a quella vittoria sul terrore della notte e del buio che secondo Wolfgang Schivelbusch (Luce. Storia dell’illuminazione artificiale, Nuove Pratiche Editrice, 1994) caratterizza la fine del XIX secolo (Parigi, la ville lumière).
Ma il fonografo, quello sì che Edison lo inventò tutto lui. Scrive il «New York Times»: «E poi venne il fonografo - prima una novità, poi un genere di lusso, infine un oggetto comune. Portò le grandi arie dell’opera nei caseggiati popolari. La voce di Caruso s’innalzò per tibetani dalla faccia piatta nei villaggi delle colline del Darjeeling. I commercianti intuirono che grazie a esso africani ancora armati di lancia avevano la possibilità di ascoltare il jazz di Broadway… E tra cinquant’anni, la voce di Caruso e dei suoi contemporanei sarà ascoltata da coloro che non sono ancora nati». Le innovazioni di Edison sono, per così dire, a monte dell’estetica, generano le condizioni perché possa prodursi un’esperienza estetica (grazie non solo al fonografo, ma anche alla cinepresa), mentre quel che colpisce negli elogi funebri di Jobs è che se ne parla come di un Dior o di una Coco Chanel dell’informatica (l’ipod come l’equivalente di quel che fu l’introduzione del tailleur per l’eleganza delle donne), cioè che il suo capitalismo è tutto immerso nella dimensione estetica: anche in questo se ne può parlare come di un «capitalista postmoderno»; non che sfrutti di meno, anzi (come ricordava Benedetto Vecchi a proposito dei beni prodotti negli sweatshops asiatici), ma lo sfruttamento si integra nella cultura del gratuito da cui trae profitto.
L’ultima coincidenza a colpire è che ambedue le morti sono cadute in un periodo in cui la crisi economica non accenna a diminuire: Edison morì due anni dopo il martedì nero 29 ottobre 1929, mentre Jobs è morto a poco più di tre anni dal fallimento di Lehman Brothers (15 settembre 2008). Anche qui però la morte di Edison è intrisa di progresso («le sue invenzioni diedero lavoro - oltre che luce e divertimento - a milioni» poiché crearono dal nulla tutta l’industria elettrica); mentre nell’altra, di posti di lavoro c’è traccia solo nel nome jobs (che in inglese vuol dire «posti di lavoro») oppure in Cina e nel sudest asiatico.

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Mirella Castigli, Steve Jobs, Foxconn, Gli Ipad e i Suicidi di chi li ha prodotti.

Tutta la verità su Foxconn, la fabbrica di iPad e “dei suicidi”, 51 centesimi all’ora all’operaio, 6.1 miliardi a Steve Jobs
Foxconn, dove si costruiscono iPad e iPhone (oltre ai prodotti Dell e Hp), è la più grande fabbrica di componenti elettroniche: un “mostro” da 61 miliardi di dollari. Dal 27 maggio 16 persone hanno tentato il suicidio: 12 sono morte.

Il 10 del mese è il giorno mogliore degli operai di iPad e iPhone: prendono la paga. 130 dollari per 240 ore di lavoro. Pari a 51 centesimi all’ora.

Chi lavora per Apple lavorava 70 ore alla settimana, ma – dopo le polemiche e i morti – il monte ore si è abbassato a 60 ore settimanali (sempre per 51 centesimi all’ora), mentre secondo Forbes Mister Gou (di Foxconn) ricava un valore netto di 5.5 miliardi di dollari e Steve Jobs (Ceo di Apple) pari a 6.1 miliardi di dollari.

Operaie a Foxconn: 51 centesimi all’ora

Secondo Reuters, Foxconn sta investendo qualcosa nell’ordine di 10 miliardi di dollari per realizzare un nuovo impianto a Chengdu. Lontando da Longhua, il suburb dell’industriale Shenzhen. Perché? “Foxconn is expanding…to where wages are lower and workers more plentiful.”

Continua ZdNet: “Do we Americans really need our electronic toys so much, we’re willing to look away when our fellow human beings are dying from the pressure they’re placed under to, essentially, live the lives of slaves?”.

Se un iPad di fascia bassa fosse costruito negli Usa da un operaio da 15 e passa dollari all’ora, non costerebbe 499 dollari come invece è a scaffale, bensì 14.970 dollari: più di una Fiat 500. Nessuno lo comprerebbe a quel prezzo, e nessuno potrebbe permettersi un notebook da 23.970 dollari o uno smartphone da 5.970 dollari.

Per avere i nostri “gadget hi-tech” preferiti, la globalizzazione è essenziale. Ma a quale prezzo umano? E qual è la via giusta per evitare l’inferno in terra per offrire il tecno-paradiso a un Geek occidentale come noi?

Qui è il nodo gordiano, da sciogliere quanto prima: quando compriamo consumer electronics, diamo una buona e una cattiva notizia. La buona notizia è che diamo un piatto da mangiare a qualcuno nel mondo, lontano da casa nostra. La cattiva notizia è che ci sporchiamo le mani con il sangue di chi ha lavorato quel gadget allo sfinimento e forse al suicidio. “That’s our world”. Che fare?




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Steve Jobs sulla Foxconn: «E' una fabbrica molto carina»

La catena di suicidi:«Apple è preoccupata e ha mandato persone a indagare. Ma non è un posto infernale»

«Foxconn non è un posto dove si lavora come dannati. Per essere una fabbrica è molto carina». Così Steve Jobs, amministratore delegato di Apple, sulla "fabbrica dei suicidi" che produce molti venduti gadget hi-tech (tra cui l'iPad e altri prodotti Apple, ma anche componenti per Dell e Nokia) e che è balzata alle cronache per un'ondata di suicidi tra gli operai, già 13 da inizio anno. «La situazione ha tutta la nostra attenzione» ha detto Jobs dal palco californiano dell'evento D8 All Things Digital. «Ci preoccupa molto, perciò abbiamo inviato nostre persone, e anche esterni, a indagare sulla situazione. Foxconn però non è una fabbrica dove le condizioni di lavoro sono tremende. Hanno ristoranti e piscine.... Per essere una fabbrica, è una fabbrica piuttosto bella».
IPOTESI - Nell'azienda gli operai si lamentano delle condizioni di lavoro. «Siamo costretti a lavorare per 12 ore al giorno, sei giorni a settimana, assemblando prodotti che non potremo mai comprare» dicono i lavoratori. Per Jobs il problema potrebbe dipendere dal fatto che dei giovani, che lasciano le loro comunità agricole, per recarsi in città a lavorare alla Foxconn, potrebbero essere sopraffatti dal nuovo ambiente in cui si ritrovano a vivere, lontani dai parenti e dagli amici. Molti operai della fabbrica arrivano dall'entroterra e si ritrovano a lavorare 12 ore al giorno per sei giorni alla settimana, senza poter comprare i prodotti che fabbricano: iPhones della Apple, computers della Dell e cellulari della Nokia.
AUMENTO - L'ultimo provvedimento nella fabbrica prevede un aumento del 30% delle paghe. La società di Taiwan di lavoro in appalto nell'elettronica Hon Hai Precision Industry, proprietaria di Foxconn, ha detto che la parte in contanti dei salari sarà aumentata del 30% con effetto immediato, oltre il 20% in più di quanto avesse indicato la società alla fine del mese scorso. La compagnia ha detto che l'aumento riflette l'innalzamento dei prezzi in Cina, e che spera di ottenere il rispetto dei lavoratori e un incremento di efficienza. L'aumento è giunto dopo che la giapponese Honda Motor ne ha offerto uno del 24% per metter fine a scioperi a volte violenti in un impianto per auto. «Foxconn deve farlo come misura drastica per prevenire un'ulteriore colpo alla reputazione dell'azienda. Ma è improbabile che la situazione si calmi per via dell'aumento» ha dichiarato Sean Chen, che gestisce un fondo da 500 milioni di dollari per Cathay Securities Investment Trust a Taipei. «La mossa metterà sicuramente pressione su altri produttori nella Cina meridionale. Ricordiamoci che è politica della Cina quella di migliorare gli stipendi ai lavoratori, solo che l'incidente a Foxconn potrebbe averla accelerata». Secondo Jp Morgan, gli aumenti dei salari potrebbero ridurre del 10% i profitti di Hon Hai. I titoli Hon Hai hanno chiuso al ribasso del 4% al livello più basso negli ultimi nove mesi, 1,3% in meno per mentre i titoli Foxconn hanno perso l'1,4% a Hong Kong.
GIORNALI - Tornando a Steve Jobs, il guru della Mela morsicata, ha dispensato altre pillole del suo pensiero nella conferenza. Su iPad e futuro dei giornali: «Non voglio che ci trasformiamo in una nazione di blogger. Una delle mie convinzioni più profonde è che la democrazia dipenda da una stampa libera e forte». E ha spiegato che Apple vuole «assolutamente» aiutare quelle organizzazioni che stanno cercando nuovi modi di diffondere le notizie, pagandole, in modo che possano mantenere intatta la loro organizzazione. «Sappiamo - dice Jobs riferendosi ai media tradizionali - cosa sta accadendo in questi settori e sappiamo che molti di loro sono in grossi guai». «Questa - aggiunge riferendosi all'iPad - è un'opportunità potenziale per fornire più valore di una semplice pagina web e ritengo che si possa cominciare a chiedere dei piccoli ricarichi su tutto ciò. Penso che la gente voglia pagare per avere contenuti. Credo nei media e nei contenuti delle notizie».
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INSIDETHEGAME, SILICIO, SANGUE E SUDORE

“Morire è l’unico modo per dimostrare di essere esistiti.
Probabilmente, per gli operai di Foxconn e per quelli come noi
che vengono chiamati “nongmingong”, lavoratori rurali migranti,
suicidarsi in Cina serve semplicemente a testimoniare di non avere affatto vissuto,
e che vivendo si è solo andati incontro alla disperazione.”

(Dal blog di un operaio, dopo il dodicesimo suicidio in Foxconn)
1.1 Introduzione – Suicidi in Foxconn
In quello che il sottoscritto, unitamente allo staff di Inside the Game, ritiene essere un gesto responsabile da parte di chi fa informazione legata al videogioco, dedichiamo questo articolo di approfondimento ai tragici eventi occorsi negli stabilimenti cinesi di Foxconn, gigante della manifattura elettronica presso cui dal Giugno 2007 si sono susseguiti 18 decessi, tra cui 15 tentativi di suicidio tristemente giunti a compimento in 13 occasioni. Le restanti morti includono casi di sospetto omicidio. Tra i clienti di Foxconn figurano Apple, Dell ed Hewlett-Packard, ma anche Sony, Microsoft e Nintendo: questa congiuntura con il mondo dei videogiochi porta a riflettere profondamente sui costi “occulti” del nostro divertimento, quelli che non si riflettono direttamente sul nostro bilancio di fine mese ma interessano la vita di chi lavora strenuamente – e spesso in condizioni al limite della dignità – per rifornire i mercati mondiali di console, telefoni cellulari, componenti per PC e quant‘altro.
Nell’indagare le ragioni dei suicidi (ma anche di decessi strettamente legati alle condizioni professionali in Foxconn), apriremo piccoli spiragli sulla mentalità imprenditoriale in potenze emergenti come la Cina, e su problematiche legate ad una possibile etica del consumo per chi come noi acquista beni prodotti nella regione.
1.2 Cronologia degli eventi
18 Giugno 2007 – La 19enne Hou, della provincia dell’Hunan, si impicca nella toilette del proprio dormitorio. Due settimane prima, aveva espresso ai genitori il desiderio di licenziarsi dopo aver ritirato il proprio stipendio.
1 Settembre 2007 – Liu Bing, 21 anni, addetto allo scaricamento di merci pesanti, muore due ore dopo essersi licenziato da Foxconn. Il Southern Metropolis Daily imputa il decesso all‘eccessivo carico di lavoro.
16 Gennaio 2009 – Feng, laureato 23enne, si lancia dal 14 piano del suo stabilimento lasciando una nota: “Troppa pressione al lavoro – emozioni instabili”. Al giovane erano stati negati i bonus di produttività.
21 Luglio 2009 – Sun Danyong, 25 anni, impiegato amministrativo presso lo stabilimento di Shenzhen, si lancia dalla finestra del suo appartamento al 12esimo piano. Accusato di aver trafugato un prototipo di iPhone 4G, Sun era stato trattenuto in isolamento dal personale di sicurezza dell’azienda, interrogato e picchiato, mentre l’appartamento veniva perquisito. Nelle sue ultime ore, confidava agli amici: “Sapendo che domani non verrò maltrattato ed usato come capro espiatorio, mi sento molto meglio”. Apple è successivamente intervenuta sulla questione, conducendo un’inchiesta personale ed esigendo dal fornitore un trattamento dignitoso e rispettoso della propria forza lavoro.
8 Gennaio 2010 – Rong Bo (età sconosciuta) muore saltando dal tetto del proprio dormitorio.
23 Gennaio 2010 – Ma Xiangqian, 19 anni, viene trovato cadavere in fondo alle scale del proprio dormitorio in Foxconn. Le due sorelle accusano l’azienda di averlo picchiato a morte (“c’erano graffi sul suo corpo – il petto era ricoperto di lividi, dalla bocca e dal naso usciva del sangue, ed aveva una grossa ferita sulla fronte”), e la stampa locale parla di un suo trasferimento alla pulizia delle toilette dopo avere accidentalmente danneggiato dell’equipaggiamento. Foxconn nega ogni responsabilità.
23 Febbraio 2010 – Wang Linyang, 16 anni, muore nel suo dormitorio in seguito a crisi cardiaca.
17 Marzo 2010 – Li, 20 anni, si lancia dal quinto piano del suo dormitorio dopo aver scoperto che i suoi risparmi erano stati rubati.
29 Marzo 2010 – Tian Yu (età sconosciuta) sopravvive dopo essersi gettata dal suo dormitorio. Ha successivamente rifiutato ogni contatto con la stampa per chiarire le circostanze del suo gesto.
6 Aprile 2010 – Liu Zhijun, laureato 23enne, muore dopo esser saltato dal 14esimo piano del suo dormitorio.
7 Aprile 2010 – Rao Leqin, 18 anni, tenta di togliersi la vita lanciandosi dal settimo piano del proprio dormitorio, ma un albero attutisce la caduta e la salva. Tra le cause del gesto, l’estensione dei turni lavorativi a 12 ore e nelle ore notturne, la paura di perdere il salario residuo in caso di dimissioni.
6 Maggio 2010 – Ning, 18 anni, muore dopo essersi lanciata dal tetto di un edificio aziendale.
7 Maggio 2010 – Lu Xin, laureato di 24 anni, si suicida saltando dal sesto piano. Secondo gli amici, soffriva di manie di persecuzione ed era sull’orlo del tracollo psicologico a causa dell’eccessiva pressione lavorativa. Lu era un allievo di Liu Zhijun, morto in Foxconn il 6 di Aprile.
11 Maggio 2010 – Zhu Chenming, 24 anni, muore dopo essersi lanciata dal tetto di un edificio aziendale. Le telecamere di sicurezza hanno ripreso il terribile evento, mostrato poi dai telegiornali nazionali.
14 Maggio 2010 – Liang Chao, 21 anni, muore dopo essersi lanciato dal tetto di un edificio aziendale.
26 Maggio 2010 – Li Hai, 19 anni, si toglie la vita saltando da un edificio a soli 42 giorni dalla sua assunzione in Foxconn. Nonostante il giovane abbia lasciato al padre un biglietto di commiato (“Sono un uomo privo di capacità, ho avuto ciò che meritavo”), la polizia ritiene che non si sia trattato di suicidio.
2 Giugno 2010 – Yan Li, 28enne, perde la vita dopo un massacrante turno da 34 ore nello stabilimento Foxconn di Shenzhen.
5 Novembre 2010 – Un impiegato dal nome non rivelato precipita da un edificio dello stabilimento di Shenzhen perdendo la vita. Le autorità locali hanno confermato l’avvenuto, ma senza dettagliarne le circostanze.
Nell’analizzare questa catena di tragici avvenimenti, emergono dei tratti comuni strettamente correlati: la giovane età delle vittime, la loro provenienza da zone rurali e quindi molto povere della Cina, e le accuse di sfruttamento inferite nei confronti di Foxconn. Quest’ultimo elemento trova gravi riscontri non solo nelle ultime testimonianze delle vittime, ma anche in reportage giornalistici nazionali e nelle vivaci proteste di gruppi locali per la protezione dei diritti umani.
1.3 Altri casi di suicidio in ambito professionale (France Telecom)
Il processo di industrializzazione cinese sta generando dei cambiamenti nella realtà del lavoro che i giovani del luogo affrontano con enormi difficoltà. Si tratta delle stesse difficoltà che Europa ed America affrontarono a cavallo tra i secoli 18esimo e 19esimo, e poterle osservare oggi attraverso la lente di ingrandimento dei media offre un’opportunità unica di raffronto con la realtà odierna. Tra il 2008 ed il 2009, ad esempio, una serie di 23 suicidi in France Télécom scioccò l’opinione pubblica francese innescando un significativo processo di autoesame: da studi socio-psicologici emerse che sino alla fine degli anni ‘80, il popolo di Francia trovava il suo “cemento sociale” proprio nel posto di lavoro e nei legami che in esso si creavano. La competitività odierna, al contrario, tende a distruggere questi legami e a generare un senso di abbandono che, in congiunzione con eventuali problematiche personali (divorzi, amicizie compromesse e quant’ altro), può sfociare nell’estremo del suicidio.
Come tra poco vedremo nel paragrafo dedicato alle condizioni di lavoro in Foxconn, esistono analogie tali da indurre a pensare che persino nei paesi più ricchi determinate difficoltà non siano state del tutto superate. Al giorno d’ oggi, ciò che accade nella vita professionale influenza gli equilibri individuali sin negli strati più profondi, e questo è vero in qualsiasi luogo del mondo ove si abbraccino modelli di sviluppo capitalistici – indipendentemente dalle differenze etniche e culturali.
1.3 Condizioni di vita in Foxconn e testimonianze dagli stabilimenti
Gran parte della forza lavoro di Foxconn è costituita dai cosiddetti “lavoratori rurali migranti” (nongmingong), ossia giovani che affluiscono dalle provincie contadine in cerca di impieghi moderni e remunerativi. Sono generalmente più istruiti dei loro genitori (talvolta persino laureati) e disposti a lavorare duramente per migliorare la propria condizione, ma nonostante ciò non sanno come innescare il cambiamento: per questa ragione, si presentano alle industrie come “materiale vuoto” da riempire facendo esperienza sul campo. L’esperienza presso Foxconn inizia generalmente con un contratto nel quale il neoassunto si impegna a non svelare a nessuno la natura del proprio lavoro, compresi i compagni di dormitorio – una misura necessaria presso un’azienda nella quale si producono spesso prototipi e nuovi dispositivi non ancora svelati al mercato. Per questa ragione, personale di sicurezza appositamente addestrato monitora ogni reparto degli stabilimenti ed impedisce ad eventuali curiosi di avvicinarsi al loro perimetro esterno, con metodi talvolta bruschi che polizia locale tollera.
Secondo un rapporto del SACOM, i turni di lavoro durano da 10 a 12 ore e si svolgono in un clima “teso ed atomizzato”, dove nel più assoluto silenzio ogni operaio reitera gesti monotoni ad un ritmo forsennato. I responsabili di reparto dettano i tempi di assemblaggio usando un cronometro e redarguendo aspramente chi non riesce a tenere il passo. Ecco la testimonianza di un anonimo lavoratore resa all’ente China Labor Watch:
“Terminiamo uno step in 7 secondi, quindi bisogna concentrarsi e lavorare senza fermarsi. Siamo persino più veloci delle macchine. Ad ogni turno assembliamo 4000 computer Dell, stando sempre in piedi. Riusciamo ad evadere queste richieste sforzandoci collettivamente, ma molti di noi sono sull‘orlo dell‘esaurimento”.
L’azienda impone il lavoro straordinario solo di fronte a particolari esigenze di produttività, ma molti operai preferiscono ricorrervi egualmente per corroborare un salario di base che ammonta a soli 900 yuan (106 euro). In regime di straordinario imposto, non è noto alcun limite massimo per il sovraccarico orario. Nel video più in alto, un lavoratore denuncia oltre 100 ore di straordinario mensile.
Nelle due ore di pausa concesse a metà giornata (non comprese nella durata del turno), gran parte degli operai consuma in fretta il proprio pasto per poter riposare in dormitorio nel tempo guadagnato; pochi altri preferiscono prendere una boccata d’aria all’esterno dei reparti. La stessa condizione si verifica a fine giornata, dove lo spazio per il dialogo con i propri colleghi è ridotto al minimo: in altre parole, un operaio può lavorare per diversi mesi in uno stabilimento Foxconn senza riuscire a far conoscenza con i compagni di dormitorio. Non va meglio a chi, insieme ad altri operai, decide di affittare una casa al di fuori degli stabilimenti, dal momento che i “nonmingong” non vengono riconosciuti come cittadini dalle comunità locali e pertanto non possono accedere ai servizi pubblici di base.
La mancanza di legami tra il personale ed il fenomeno di emarginazione sociale al quale gli operai sono soggetti configurano uno scenario nel quale la volontà e la tenuta psicologica individuale vengono messi a dura prova. Per usare le parole di Li Qiang, direttore esecutivo di China Labor Watch, “questi giovani lavoratori hanno la sensazione che nessuno si prenda cura di loro”.
Alla luce di queste realtà, largamente note in Cina come nella comunità internazionale, ci si può chiedere per quale motivo i giovani del posto continuino ancora oggi ad affluire agli stabilimenti di Foxconn. Il motivo è in realtà molto semplice: per quanto esiguo, il salario in Foxconn è sempre garantito e commisurato alle ore di straordinario prestate. Questa certezza rinforza nei lavoratori la convinzione che quell’azienda sia il posto migliore per accumulare risparmi, e la speranza di potere un giorno uscire fuori dal giro con denaro a sufficienza per realizzare i propri progetti personali.
1.4 Dalle manopole in plastica ad iPhone 4: cos’è Foxconn
Come ama ripetere il fondatore e presidente di Foxconn, Terry Tai-Ming Gou, “è facile ammassare armate di migliaia di uomini, ma è difficile trovare un solo generale”. Ed proprio con l’appellativo di “Generale” che la stampa internazionale usa riferirsi a questo intraprendente manager taiwanese, la cui azienda è oggi la più grande produttrice di componenti elettroniche al mondo. La carriera di Gou iniziò a 24 anni, nel 1974, con un prestito da 7.500 dollari richiesto alla madre: con quel denaro acquistò due macchinari per la modellazione della plastica ed aprì una piccola attività in un sobborgo di Taipei chiamato Tucheng (“La Città Sporca”). Il primo cliente fu l’americana Admiral TV, che gli commissionò delle manopole per la selezione dei canali nei suoi televisori in bianco e nero. Successivamente arrivarono accordi con RCA, Zenith e Philips che resero Hon-Hai nota negli Stati Uniti (questo il nome originario di Foxconn).
Nel 1980, Gou firmò un fortunato accordo con Atari per la produzione di connettori destinati alle storiche console 2600, e colse l’occasione per registrare le creazioni tecnologiche della sua azienda: per allora, il manager aveva imparato a scrivere il proprio nome in inglese e si preparava a quella che potremmo definire una vera e propria impresa, ossia visitare le aziende di 32 stati U.S.A. in un tour da 11 mesi, alla ricerca di accordi sempre più proficui. In quell’occasione, Gou viaggiò in una Lincoln presa a noleggio dormendo in diverse occasioni nel sedile posteriore per contenere i costi. Finì per strappare un contratto ad IBM, ed al suo ritorno in Cina quotò Hon-Hai in borsa finanziando la creazione di un enorme complesso a Longhua nel distretto dello Shenzhen: era il 1988.
Il numero di operai continuava a crescere, e Gou comprese che era necessario affiancare agli stabilimenti industriali una serie di strutture che potessero ospitare la forza lavoro e provvedere ai suoi bisogni: con uno sforzo economico che nessun concorrente straniero avrebbe mai attuato in territorio comunista, si costruirono dormitori, lavanderie, caffetterie, postazioni mediche ed antincendio. Sotto lo sguardo incredulo degli investitori occidentali, il complesso di Longhua raggiunse le proporzioni record di 3 chilometri quadrati configurandosi come una sorta di piccola città dotata di una rete televisiva autonoma.
A metà degli anni ’90, la partnership tra Foxconn e Compaq evidenziò l’incredibile capacità di Gou di organizzare il lavoro nei propri stabilimenti: i macchinari trasformavano semplici blocchi di metallo in chassis per computer che passavano alle catene di montaggio, e venivano integrati con alimentatori, floppy drive e cavi di connessione. Al committente giungeva perciò un prodotto già pronto ad ospitare motherboard, CPU, memorie ed hard disk con procedure di montaggio semplici ed economiche. Questa tecnica produttiva, unita alla velocità ed al basso costo di manifattura, fece si che aziende come IBM, Apple, Dell ed HP saltassero sul vagone di Gou senza pensarci due volte.
I clienti attribuiscono largamente la fortuna dell’imprenditore taiwanese alla condotta aggressiva con cui porta avanti gli accordi commerciali. L’obiettivo principale di Gou consiste nel far si che la maggior parte dei componenti necessari alla produzione di un qualunque bene avvenga in Foxconn o altre aziende ad essa collegate. Per fare ciò, egli è disposto ad assumersi oneri economici e rischi di grande entità, come nel caso di iPhone 4: un componente metallico risultava di così difficile produzione da richiedere l’impiego di un macchinario specifico prodotto dalla giapponese Fanuc, e destinato a prototipi. Per nulla intimidito dal costo elevato del macchinario (oltre 20.000 dollari), Gou ne acquisì oltre 1000 esemplari consentendo ad Apple di avviare la produzione di massa del suo smartphone.
1.5 Damage control: le strategie del presidente Terry Gou e dei clienti Foxconn
L’atteggiamento di Gou è dunque tale da cementare in maniera quasi indissolubile il rapporto di fiducia con i clienti, anche di fronte a tragedie come i suicidi di cui parlavamo in apertura. Per questa ragione aziende come Apple, HP, Nintendo e Sony invitano volentieri Foxconn a migliorare le condizioni di lavoro dei suoi dipendenti, ma si guardano bene dal mettere in discussione i loro rapporti commerciali con il gigante cinese. In condizioni del genere, quale può essere il significato e la credibilità delle inchieste avviate nei mesi scorsi da certi committenti storici di Foxconn, aldilà di scongiurare eventuali ed infamanti accuse di inerzia? Ecco cosa affermava Nintendo all‘alba del quattordicesimo suicidio:
“Prendiamo molto sul serio le responsabilità derivanti dal nostro ruolo di compagnia globale, e ci atteniamo ad una polizza etica riguardo alla commissione, alla manifattura ed alla qualità del lavoro. Per garantire l’espletamento delle nostre responsabilità sociali presso i nostri fornitori, abbiamo istituito nel Luglio del 2008 le ’Nintendo CSR Procurement Guidelines’. Esigiamo che tutti i partner di produzione, inclusa Foxconn, si attengano a queste linee guida basate su leggi, standard internazionali e direttive connesse.”
Più lapidaria la reazione di Sony, che in un comunicato stampa informava:
“In risposta ai recenti rapporti, Sony ha cominciato ad attuare misure per valutare nuovamente le condizioni di lavoro in Foxconn.”
Supponendo che le aziende abbiano effettivamente condotto delle verifiche sui luoghi incriminati, per quale ragione l’ opinione pubblica è ancora all’ oscuro dei loro esiti? Non è forse il dovere di informazione incluso tra le responsabilità sociali di questi produttori verso i loro clienti? L’unica risposta in questo senso è arrivata da Apple, che dallo stabilimento Foxconn di Shenzen vede giungere la totalità dei suoi i-Devices (iPhone, iPad, iPod e computer Mac). Il presidente Steve Jobs ha personalmente visitato le fabbriche cinesi asserendo poi nel corso di una conferenza:
“Entri in questo posto ed è un’ industria ma, cavoli, hanno ristoranti e cinema, ospedali e piscine. Per essere un’ industria, è piuttosto bella […] Foxconn non è una fabbrica di sudore [= dall'espressione americana 'sweatshop', ossia luogo di sfruttamento, ndr]


Michael McNamara, presidente della ditta americana Flextronic, ritiene che l’ ambiente di lavoro offerto dalla concorrente cinese non sia affatto tra i più ostici, alludendo al fatto che fuori da li ci sia anche di peggio:
“Non riesco a credere che non esistano posti di lavoro peggiori di Foxconn, se a qualcuno non piace lavorarci può sempre andare in strada e trovare altri 10 impieghi”
Questo è il totale dei riscontri che l’industria occidentale ha offerto in relazione ai suicidi negli stabilimenti di Foxconn, dove il presidente Terry Gou ha adottato diverse misure per contrastare il tragico fenomeno. In un’intervista al Bloomberg Newsweek, Gou ha ammesso di avere inizialmente sottovalutato il problema ritenendolo inevitabile in un ambiente che ospita oltre 800.000 lavoratori; solo dopo il quinto suicidio si è ritenuto di dover intervenire con decisione. Oltre ad includere nelle fabbriche dei centri di assistenza psicologica aperti 24 ore su 24, gli edifici aziendali son stati circondati da reti atte a scoraggiare ulteriori gesti estremi. L’effetto visivo, come potete constatare nelle immagini a corredo dell’articolo, è piuttosto alienante. Decisamente più incoraggianti sono state le manovre relative ai salari, aumentati del 30% nel mese di Marzo (129,41 euro) e addirittura del 66% in Giugno (215 euro), seguiti da piani per l’apertura di nuovi stabilimenti a Zhengzhou, nella provincia rurale dell’ Henan, da cui proviene 1/5 della forza lavoro di Foxconn. Così facendo, Gou spera di avvicinare i suoi lavoratori ai luoghi di origine ed ai loro affetti, ma ha richiesto al contempo l’ intervento del governo provinciale affinché contribuisca alla realizzazione di dormitori ed altre strutture (“Non voglio costruire caffetterie per tutta la vita”, afferma perentorio il Generale).
Contemporaneamente l’azienda ha sospeso le ragguardevoli compensazioni spettanti alle famiglie dei dipendenti suicidi, consistenti in 110,000 yuan (quasi 12.000 euro) che finivano per trasformarsi in un paradossale incentivo a togliersi la vita. In sede di contratto, i nuovi lavoratori firmano adesso una clausola nella quale si impegnano – pensate un po’ – a restare vivi. Tra le altre iniziative promosse da Gou citiamo un mastodontico “Festival della Vita” tenutosi nel mese di Maggio, dove famosi cantanti ed attori hanno intrattenuto i dipendenti invitandoli a riscoprire la gioia ed il valore della vita, e persino l’intervento di monaci buddisti che liberassero i locali aziendali dagli spiriti maligni.
1.6 La lotta per i diritti di SACOM, movimenti di protesta (proteste in fabbriche cinesi Honda) e nuovi rapporti
Le dure condizioni di vita dei lavoratori in Foxconn sono state portate all’attenzione generale da due organizzazioni, ossia il SACOM (Students & Scholars Against Corporate Misbehaviour, autore del più approfondito rapporto sulle difficoltà dei lavoratori rurali migranti) e l’osservatorio sul lavoro China Labor Watch, responsabili di manifestazioni in Hong Kong nelle quali si chiedeva alla compagnia di salvaguardare i diritti e la dignità dei dipendenti. Ad avvalorare la battaglia dei due enti è giunto un reportage della pubblicazione Southern Weekly, che nel mese di Maggio ha inviato il giovanissimo reporter Liu Zhi Yi all’interno dello stabilimento di Shenzen sotto mentite spoglie: in 28 giorni di permanenza, il giornalista ha potuto toccare con mano i disagi del personale fornendo gran parte del materiale che ritrovate in questo articolo, ma soprattutto degli argomenti in grado di scuotere le coscienze dei lavoratori cinesi.
In seguito agli aumenti salariali operati da Foxconn, altre aziende nel Sud della Cina hanno visto i propri operai incrociare le braccia contro i datori di lavoro: nello stabilimento Honda di Foshan (stessa città dove in queste ore, dipendenti Foxconn scioperano in massa e l’azienda tenta di insabbiare la vicenda), la produzione è stata bloccata ad intervalli regolari da scioperi ben organizzati, un fenomeno difficile da vedere in un paese in cui il diritto di aggregazione dei lavoratori non è riconosciuto. Grandi fabbriche come la KOK nel Kunshan (produzione di pneumatici) e la Jiashian di Sanggang (componenti elettronici) sono state protagoniste di scontri tra operai e forze dell’ordine, rivendicando diritti il cui riconoscimento sarebbe bloccato da connivenze tra gli imprenditori ed il Partito Comunista. Di fronte alla repressione, diversi giovani scelgono di tornare ai paesi d’origine attuando esattamente ciò che gli imprenditori cinesi temono, ossia una fuga della forza lavoro alla quale si potrà rispondere unicamente aumentando gli stipendi: sono queste le avvisaglie di un cambiamento che nei prossimi decenni interesserà profondamente il mercato del lavoro e l’intera società cinese.
In ultima analisi, non sorprende vedere come gli insegnamenti di Karl Marx regolarmente impartiti nelle scuole locali vengano spesso citati dai lavoratori in protesta: Karl Marx aveva ragione”, afferma Liu Dechang, operaio presso le fabbriche Jiashian, “Dovremmo combattere come avvenne nell’ Europa del XIX secolo. Le fabbriche cinesi sono come quelle europee di due secoli fa, e come disse Marx, è solo combattendo contro i capitalisti che otterremo i nostri diritti”.


1.7 Considerazioni finali
Certe risposte, probabilmente, spettano solo alla politica ed alla storia. Ma di fronte ad un presente così duro per gli operai di Longhua e di numerose altre fabbriche da cui provengono i nostri iPhone, le nostre console e gran parte dei beni dell’elettronica di consumo, è inevitabile chiedersi da consumatori quale atteggiamento sarebbe opportuno assumere. D’altra parte, il “bisogno” di gadget sempre più nuovi ed efficienti è qualcosa di inestricabile per chi vive in paesi moderni come il nostro, e pochissimi sarebbero disposti a pagarli (molto) più di quanto non facciamo oggi sol perché un’azienda coscienziosa ha deciso di spostare la produzione la dove le condizioni di lavoro sono più giuste, eque e sostenibili. Tutto questo pone il semplice cittadino nella condizione di non poter fare nulla per cambiare lo status quo, aldilà dell’attuare un consumo informato e per quanto possibile, scevro dagli sprechi che giorno dopo giorno alimentano un’ industrialità che umilia i diritti altrui.
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Steve Jobs: scambio di email riguardo i suicidi presso Foxconn    

I tragici eventi degli ultimi mesi presso la fabbrica della Foxconn in Cina hanno attirato l’attenzione sulle disperate condizioni di lavoro alle quali sono sottoposti i dipendenti delle fabbriche orientali.
Un ammiratore di Apple e di Steve Jobs, Jay Yerex, ha pensato di inoltrare al CEO dell’azienda di Cupertino una mail contenente la campagna iniziata da LabourStart, finalizzata a sensibilizzare i sindacati dei lavoratori dipendenti affinché reagiscano di fronte a queste terribili circostanze.
Dal testo si legge: “Quello che forse non sapete [riguardo iPad e al suo lancio internazionale] è che l’azienda che li produce, in Cina, è stata la scena di una dozzina di suicidi di operai negli ultimi mesi”. Jay ha aggiunto anche: “Steve, Apple può fare di meglio”.
La replica di Jobs, sintetica ma piena di significato, è stata: “Sebbene ogni suicidio sia tragico, il tasso di suicidi di Foxconn è ben più basso rispetto alla media cinese. We are all over this”. Non ho tradotto volutamente l’espressione “We are all over this”, poiché è stata oggetto di un fraintendimento tra Steve e Jay che ha portato avanti lo scambio di mail.
Infatti, Jay risponde: “Cosa significa ‘we are all over this’? Come indagini? O chi se ne importa? [...] Quando sono stato licenziato per avviare un sindacato, comprai il mio primo Mac. Ho sempre pensato che Apple fosse responsabile socialmente. Ho persino smesso di fumare per acquistare un iPad. Forse dovrei ripensarci. Specialmente se sei sopra (“over” nel testo originale) 12 morti”.
Jobs ha replicato affermando: “Dovresti informarti. Facciamo più di ogni altra azienda al mondo” e inserendo un link alla sezione Supplier Responsability di Apple.
La risposta di Jay è stata: “L’ho fatto. Ed è per questo che ho sempre acquistato prodotti Apple e ti ammiravo. Il commento ‘we are all over this’ l’ho trovato offensivo”.
Per concludere la conversazione, Jobs ha spiegato a Jay il significato dell’espressione americana “we are all over this”: “E’ un’espressione americana che significa che la situazione ha tutta la nostra attenzione”.

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Marco Braghieri, Nella fabbrica degli iPhone è proibito anche suicidarsi


«In caso di infortuni non accidentali (fra cui il suicidio o il ferimento volontario, etc.) sottoscrivo che la compagnia ha seguito leggi e regolamenti e non farò causa». È una delle clausole contrattuali di Foxconn, il gigante dell'assemblaggio cinese che produce anche gli iPhone, iPod e iPad per Apple. Le condizioni di lavoro dentro quello che è stata ribattezzata «la fabbrica dei suicidi» sono sempre state al centro delle polemiche. Nel corso del 2010 quattordici persone si erano tolte la vita.


Una lettera di assunzione, le felicitazioni «per entrare a far parte della famiglia Foxconn». Fra l'intestazione e la firma del contratto chiesta a ogni operaio cinese del gigante dell'assemblaggio, tra gli altri, di iPhone e iPad, ci sono ancora dei punti (incredibili) da sottoscrivere, che non sarebbero stati modificati dal 2010, quando ci furono numerosi casi di suicidio nelle fabbriche Foxconn.
Il secondo: «Se ho grandi difficoltà o frustrazioni mi rivolgerò ai miei famigliari o al direttore della compagnia […]». E ancora: «Non farò del male né a me stesso né agli altri; sottoscrivo che, per dar modo alla compagnia di proteggere me stesso e gli altri, possa mandarmi in ospedale se dovessi avere problemi fisici o mentali». Con lo stesso tono, al punto tre, la Foxconn impegna i propri dipendenti a qualcosa di diverso. «In caso di infortuni non accidentali (fra cui il suicidio o il ferimento volontario, etc.) sottoscrivo che la compagnia ha seguito leggi e regolamenti e non farò causa alla compagnia, non farò richieste eccessive né intraprenderò azioni drastiche che possano danneggiare la reputazione della compagnia o causare problemi alla normale operatività». La lettera integrale si trova sul sito Shangailist.
Le condizioni di lavoro dentro Foxconn sono sempre state al centro delle polemiche. Nel corso del 2010 quattordici persone si erano tolte la vita. L'azienda, guidata dall'amministratore delegato Terry Gou, aveva aumentato gli stipendi e anche Apple si era espressa sui suicidi. «Siamo direttamente in contatto con i manager di Foxconn e crediamo che stiano prendendo molto sul serio questa questione».
Lo stesso Steve Jobs, a luglio 2010 aveva detto: «Vai in questo posto e c'è una fabbrica, ma insomma, ci sono ristoranti, cinema, ospedali e piscine. Per essere una fabbrica è abbastanza bella». L'azienda, che dà lavoro a circa 600 mila dipendenti e ha la sede principale a Taipei, Taiwan, aveva anche fatto installare delle reti attorno alle proprie sedi, come riportato anche dalla Bbc. Erano stati presi impegni sull'orario di lavoro, il salario, gli straordinari. Tutti impegni che, secondo la Sacom, sono stati disattesi. La Sacom è una organizzazione no-profit che si occupa di migliorare le condizioni di lavoro, ed è formata da studenti.
Il suo report più recente descrive la situazione nei tre campus (così definiti) di Foxconn. Shenzhen, Chengdu e Chongquing dove si lavora per Apple, Hp, Nokia, Delle e altri produttori. Sono raccolte circa 120 interviste ai lavoratori, giovani dai 16 ai 30 anni, tutti coperti di anonimato. Le conclusioni dello studio «sono basate sulle interviste ai lavoratori e sull'osservazione dei ricercatori». I lavoratori, secondo la ong, sono sempre obbligati a fare straordinari e un continua ad essere usato un stile militare, in particolare per i nuovi assunti.

Rispetto a un anno fa, gli impegni di Foxconn (e di Apple), scrive ancora Sacom, sono rimasti lettera morta. Rimangono i calcoli errati sul salario, straordinari non pagati. In totale le ore di lavoro extra-contratto arrivano a 80 – 100 al mese. I lavoratori mancherebbero anche di protezioni e non gli sarebbero date sufficienti informazioni sugli agenti chimici che maneggiano.
L'amministratore delegato di Foxconn, Terry Gou, 117esimo fra i personaggi più influenti del mondo secondo i lettori di Time, sta rivolgendo le attenzioni della compagnia anche a distanza dagli stabilimenti cinesi. L'investimento in Brasile, sarebbe di 12 miliardi di dollari, anche se non è ancora definitivo. Sempre nel corso del 2010, la Foxconn aveva rilocalizzato alcuni stabilimenti dalla fascia produttiva del sud della Cina verso l'interno, dove i salari sono più bassi.




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