C’è una tentazione costituente che aleggia sul procedimento di riforme costituzionali. Una tentazione inafferrabile, ma anche ostentata; incuneata nei tecnicismi procedurali, ma talvolta sfoggiata apertis verbis nelle aule parlamentari. La si ritrova nel discorso sulla fiducia del Presidente del Consiglio che sollecita le forze politiche a «partecipare pienamente al processo costituente».
Ma anche nella decisione contenuta nel disegno di legge del Governo di approdare alle riforme sulla base di un procedimento, extra ordinem, in deroga a quanto espressamente previsto dalla Costituzione all’art. 138 Cost. Una tentazione che neppure il Parlamento (almeno fino a oggi) pare in alcun modo intenzionato a raffreddare. Anzi il Senato vi ha dato ulteriore sfogo recependo (in sede di prima lettura) un emendamento che consente di ampliare il raggio di azione delle modifiche a tutte le norme «strettamente connesse» ai titoli I, II, III, V della seconda parte: una sorta di potere paracostituente che potrebbe indurre il Parlamento a incidere anche sulla prima parte della Costituzione.
Certo, tutti sappiamo che i processi costituenti non si creano artificialmente attraverso escamotages procedurali. Essi si impongono politicamente nei momenti cruciali della storia delle nazioni. Ma siamo proprio sicuri di non vivere anche una fase «cruciale»? Siamo veramente certi che il costituzionalismo contemporaneo sarà in grado di resistere alle devastanti conseguenze prodotte dalla crisi economica e finanziaria che sta oggi ridisegnando gli equilibri del mondo? Difficile rispondere. Ciò che è certo è che l’offensiva oggi in atto contro la Costituzione è un’offensiva senza precedenti.
Se la retorica delle riforme ha in questi trent’anni provato a scaricare, bicamerale dopo bicamerale, le cause delle degenerazioni delle politica italiana sulle spalle della Costituzione, oggi questa offensiva rischia di divenire ancora più insidiosa: perché il bersaglio non è più soltanto la seconda parte della Costituzione italiana, ma il costituzionalismo democratico tout court che con la sua congenita pretesa di limitare il dominio del capitale costituirebbe oggi il vero fattore scatenante della crisi.
È questo il significato del report diffuso dalla Jp Morgan il 28 maggio. I suoi contenuti sono noti: per la banca d’affari Usa le cause della crisi non hanno «natura prettamente economica», ma vanno piuttosto imputate ai «sistemi politici» dei Paesi europei e «in particolare alle loro costituzioni», le cui disposizioni riflettono «la forza politica che i partiti di sinistra hanno guadagnato dopo la sconfitta del fascismo». Basti solo pensare al «diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi» o al riconoscimento della «tutela costituzionale dei lavoratori».
Queste garanzie, in tempi di crisi, non sono più tollerabili. Non sono tollerabili per la Jp Morgan, ma non lo sono nemmeno per tutte le altre istituzioni della globalizzazione finanziaria che da tempo ci rammentano che siamo di fronte a un passaggio d’epoca con il quale l’Europa e le costituzioni democratiche sono chiamate oggi a fare i conti. L’Ue ha già iniziato a farlo approvando il Fiscal compact. Il Parlamento italiano non è stato da meno introducendo senza fiatare il pareggio di bilancio in Costituzione. E lo stesso si apprestano a fare oggi le Camere (salvo auspicabili sorprese) approvando un procedimento straordinario, il cui fine ultimo è quello di dare vita a un nuovo «impianto» costituzionale in grado di «affrontare su solide basi le nuove sfide della competizione globale» (Relazione di accompagnamento al ddl 813). Un’esigenza questa divenuta oggi indifferibile a fronte della «attuale situazione di crisi economica» che rende «non più tollerabili le inefficienze e i nodi irrisolti del nostro sistema politico e istituzionale».
Ma il Parlamento ne è cosciente? Ha consapevolezza cioè di quelle che potrebbero essere le ricadute della «riforma» costituzionale in termini politici e sociali? Ne dubito. Di certo lo sono però quelle forze che nel corso del dibattito in Senato, nel riaffermare le ragioni del semipresidenzialismo, si sono già adoperati a dimostrare l’esistenza di un nesso strutturale tra la recente sentenza della Consulta sull’illegittimità dell’art. 119 dello Statuto dei lavoratori e il deludente grado di competitività dell’Azienda Italia.
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