Se lo tocchi non esiste». Era lo slogan paradossale del consulente McKinsey Tom Peters, che bene rappresenta il pensiero mainstream nella stagione menzognera - della fine degli anni Ottanta e proseguita almeno per tutto il decennio successivo - in cui le retoriche del virtuale accompagnavano la finanziarizzazione del mondo. Gli anni in cui se un'impresa tagliava pezzi della propria organizzazione (l'eufemistico re-engineering) migliorava quotazione borsistica; in cui il Far East divenne l'officina del mondo, calamitando un flusso di decentramento produttivo transnazionale iniziato nel 1962, quando l'impresa di semiconduttori made in Usa Fairchaild insediò il proprio stabilimento di montaggio a Hong Kong. Data d'inizio della deindustrializzazione occidentale. Da quel momento fu mattanza a Ovest, nel susseguirsi di bollettini bellici che segnalavano la crescente desertificazione del lavoro.
Invece la colomba del 2013 porta nel suo becco un ramoscello d'ulivo che annunzia come negli Stati uniti il diluvio universale sia finito e l'arcobaleno riappaia all'orizzonte. Per inciso, mutamento climatico che ancora non si segnala nella landa alla periferia del mondo chiamata Italia, dove la cultura del virtuale nella sua declinazione truffaldina ha prodotto lo sport estremo di chiudere le fabbriche durante le ferie estive; in modo che nessuno se ne accorga!
In America - quindi - le manifatture ritornano a casa. Ne dava notizia la copertina di Time del 22 aprile scorso, in cui due saldatrici assemblavano il titolo: made in the Usa. Il fenomeno si chiama reshoring: il rimpatrio di attività industriale e di servizi, che inizia ad assumere dimensioni consistenti; promettendo ulteriori accelerazioni nei prossimi anni. Intanto sta invertendosi il trend occupazionale nell'industria manifatturiera statunitense; che oggi impiega 12 milioni di lavoratori contro i 17 di vent'anni fa, ma che la ritrovata crescita promette di recuperare entro il 2020. E già negli ultimi tre anni i posti creati sono stati mezzo milione. Al "ritorno a casa" si accompagna anche la localizzazione di imprese provenienti da altri paesi, come Siemens per la sua produzione di turbine a gas o Rolls Royce per componenti destinate ai motori d'aereo.
Tutto segnala che è rinata quella che l'economista Alfred Marshall chiamava industrial atmosphere: un ambiente favorevole all'attività mirata alla produzione che rafforza e attrae iniziative. Indubbiamente qui giocano fattori di cornice particolarmente significativi. In primo luogo la bonanza della ritrovata efficienza energetica; in particolare grazie all'estrazione di gas da scisti argillosi (gas shale). Sicché la produzione americana, tra il 2000 e il 2010 è passata da 10 a 140 miliardi di m3, con cui si è raggiunta l'indipendenza energetica e l'opportunità di trasformarsi da paese importatore in esportatore.
Poi ha funzionato alla grande il tradizionale rapporto tra ricerca e impresa. Questa volta con una particolare attenzione alle opportunità di crescita competitiva dell'economia "reale"; sempre nelle modalità del milieu d'innnovazione. Un esempio per tutti, riferito dal sociologo d'impresa Ferdinando Fasce: la produzione di stampanti 3D della ExOne di Pittsburg, che ha potuto contare sugli apporti decisivi provenienti dal colosso della ricerca Carnegie Mellon. Al centro di questa ripresa della manifattura c'è il decisivo rapporto con le comunità scientifiche locali: pur rappresentando solo il 9% dell'occupazione, tale settore contribuisce al 67% della spesa privata in R&S.
Ma la cornice non è completa se non si tiene conto che l'amministrazione Obama ha fatto della rinascita manifatturiera una priorità politica, non solo economica. Con precise azioni: ora Apple promette di assemblare in patria i propri computer, Wal-Mart darà la precedenza ai fornitori nazionali. Insomma, si è capito che la follia insita nella finanziarizzazione (fare a meno delle persone) non porta lontano: in un generale impoverimento chi alimenterà il mercato del consumo? In qualche misura si è recuperata l'antica saggezza di Ford Senior, secondo cui il primo acquirente della Ford modello T doveva essere proprio l'operaio che l'aveva costruita.
Un messaggio da oltre Atlantico che sarebbe bene facesse breccia nelle menti dei nostri governanti attardate dalle ricette NeoLib: il mercatismo fondamentalistico che aggiorna lo sfruttamento facendo rinascere l'antico proletariato ottocentesco nelle forme postindustriali del precariato. Sperando di tenere buoni i lavoratori con la paghetta dei 14 euro previsti dalla legge di stabilità.
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