Il mondo si è accorto della forza irriverente dei teenager alla metà degli anni Cinquanta, quando in America è esploso il rock e Mary Quant, a Londra, ha cominciato a proporre coloratissimi abiti capaci di rivoluzionare il canone della moda. Questa ricostruzione storica, mai messa in dubbio sino a oggi, è contestata da Jon Savage in L’invenzione dei giovani (Feltrinelli, pagine 496, euro 30), un saggio nel quale lo studioso inglese allinea in abbondanza documenti e prove per sostenere una tesi diversa: ragazzi e ragazze, sostiene, presero ad affacciarsi sulla scena pubblica molto prima, addirittura in pieno XIX secolo, il loro slancio vitale antisistema venne represso in Europa e negli Usa perché ritenuto pericoloso dall’establishment e ciò che accade a breve distanza dalla fine del secondo conflitto mondiale fu, in buona sostanza, soltanto un tentativo (riuscito) di normalizzazione per attutirne la carica eversiva.
La vicenda narrata da Savage inizia nella New York di fine Ottocento, dove gli under diciotto di entrambi i sessi già costituivano un problema sociale: nelle prigioni dell’epoca oltre il dieci per cento dei detenuti non era maggiorenne e spesso i reati loro imputati erano assai gravi. Si trattava, in larga percentuale, di figli di emigrati, insofferenti verso le regole della nuova patria e nello stesso tempo resi euforici e trasgressivi da un clima di libertà sconosciuto in precedenza.
Rilevò all’epoca un sociologo: “I sensi appena risvegliati sono calamitati da ciò che è più volgare e sensuale, dalla travolgente musica per strada, dagli sgargianti manifesti dei teatri, dai cappelli con le piume, dal mediocre eroismo della rivoltella messa in mostra nella vetrina del banco dei pegni. La basilare suscettibilità di quel tempo della vita viene pertanto evocata senza il parallelo intervento dell’intelligenza, ma il risultato è spesso il più pericoloso che possiamo immaginare”.
Per tentare di tamponare il problema, oltre all’inevitabile repressione giudiziaria, si fece ricorso alla via culturale. I teenager dovevano ad ogni costo essere integrati e per farlo si sviluppò in maniera quasi spontanea una letteratura volta a favorirne l’inserimento e, in contemporanea, a incanalare in maniera positiva una naturale esuberanza. Era l’epoca in cui in testa alla lista dei libri più venduti c’era Il meraviglioso mago di Oz (“una fiaba in cui dominano la meraviglia e l’allegria, lasciando fuori dolori e incubi”, disse il suo autore) e i genitori leggevano avidamente Adolescence, un saggio in cui si consigliava “di prendere in opportuna considerazione il fatto cruciale che per il completo apprendistato della vita i giovani hanno bisogno di riposo, tempo libero, arti, leggende, romanticismo, idealismi, e in particolare di fede nell’umanesimo”.
La scommessa da vincere, sottolinea Savage, era convincere piuttosto che reprimere. E proprio a questo scopo nel Regno Unito (che condivideva i medesimi problemi) Robert Stephen Smyth Baden-Powell diede vita pochi anni dopo l’inizio del nuovo secolo a un movimento destinato a rivoluzionare le politiche verso i teenager (lo scoutismo) pensato per educare i giovani proletari che gli esperti angloamericani dell’infanzia avevano ormai identificato come un problema di difficile soluzione.
La devianza giovanile, precisa Savage, non era comunque solo un problema americano o inglese. Le medesime dinamiche, infatti, si potevano ritrovare quasi nell’intera Europa (in particolare in Francia e in Germania) e si vennero accentuando nel difficile periodo tra le due guerre mondiali, come dimostra la feroce repressione nazista verso chi non si piegava alle regole del regime “assai spesso non su motivazioni di natura politica ma per spontanea irrequietezza legata all’età”.
Ad attutire e poi a spegnere le tensioni, conclude Savage, fu la lunga fase caratterizzata dal boom economico postbellico. Quando i teenager cominciarono ad avere significative risorse proprie per soddisfare le loro esigenze in termini di consumi e posero tacitamente fine alla battaglia contro gli adulti. Dall’America del rock nascente e dalla Gran Bretagna dove trionfavano le gonne sempre più corte disegnate da Mary Quant sembrò emergere una nuova figura: l’adolescente autonomo e indipendente. Che nuova, però, proprio non era, visto che alle spalle aveva una dura storia conflittuale protrattasi per molti decenni. Una figura , aggiunge lo studioso inglese, destinata a restare al centro del mercato mondiale di massa sino a quando la crisi dalla quale non siamo ancora usciti non l’ha messa in ombra, spingendola verso un riparo, probabilmente temporaneo, all’interno della famiglia.
Ma si tratta di una tregua momentanea, destinata a finire non appena la fase della recessione terminerà. Perché il conflitto generazionale, sia pure pacifico, è ormai, secondo Savage un elemento non eliminabile della società occidentale. E il futuro, senza dubbio in forme meno violente rispetto a quelle di un secolo fa, verrà per sempre disegnato a misura di teenager.
"Siamo inondati dalle immagini di Hollywood e da una visione del mondo filtrata attraverso lo sguardo yankee. Poi vai negli USA e ti accorgi che la realtà è diversa da come gli americani la raccontano, il che ti fa pensare che il modo in cui vogliono essere visti sia lo specchio di un disagio rispetto a quello che effettivamente sono" (A. Dominik, regista australiano)
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