New York, Atlanta, Dallas, Los Angeles, Oakland, Louisville, Detroit, il «virus» di Minneapolis si diffonde e contagia il paese esplicitando sintomi di una patologia profonda.
L’immagine più emblematica forse di questa America infiammata, è stata quella delle proteste davanti alla Casa bianca blindata in cui il presidentissimo twittava insulti ai contestatori ed elogi per il secret service «inespugnabile» – se mai la distopica e convulsa iconografia trumpista ha prodotto un’immagine crepuscolare è stata questa di un tiranno asserragliato nel palazzo, definitivamente dissociato dalla realtà esterna e da un paese con cui è in guerra.
BILIOSO E RANCOROSO Trump ha raddoppiato la fiele dei tweet al punto in cui la piattaforma ora segnala i suoi post come tendenziosi e apologetici di violenza. Il teorema dei «teppisti» ribaltato sul presidente-thug.
Non poteva esserci presidente più spettacolarmente inadatto a far fronte a questa situazione che quello che ha incarnato la «restaurazione bianca» dopo la prima presidenza afro americana. Trump ha rincarato la dose delle sue affermazioni passando dal «è ora di cominciare a sparare sui saccheggiatori» allo sguinzagliamento sui manifestanti di «cani feroci».
Un repertorio ispirato ai più nefasti precedenti storici di era segregazionista: citazione diretta di Walter Headley sceriffo razzista di Miami la prima, e di Bull Connor, capo della polizia di Birmingham Alabama che amava usare i cani lupo contro i cortei nonviolenti di Martin Luther King.
Sempre col dito saldamente nelle piaghe che dilaniano il paese, questo è dopotutto il presidente che una settimana fa, in una fabbrica del Michigan, esaltava la purezza di stirpe di Henry Ford – noto suprematista fiancheggiatore hitleriano. Ora si trova a presiedere su uno sfacelo anch’esso con profonde e mefitiche radici.
LE RIVOLTE URBANE a sfondo razziale fanno parte della modernità americana, da Watts (1965) a Newark (1967), Detroit (1967), Liberty City-Miami (1980), Los Angeles (1992), Ferguson (2015). Ma forse solo dopo l’assassinio di King la scala era stata così generale. Ieri nel mobilitare anche tutte le rimanenti unità della guardia nazionale, Tim Waltz, il governatore del Minnesota, ha dichiarato che «queste sommosse non hanno ormai più nulla a che vedere con la morte di George Floyd».
DICHIARAZIONE strumentale che contiene tuttavia una dose di verità. Le «sommosse» concernono effettivamente più che il solo tragico episodio di Minneapolis. Come ogni sollevamento seguito a soprusi polizieschi dell’incompleta lista di cui sopra, esprimono una sofferenza sedimentata da anni e decenni di ingiustizia, un dolore interiorizzato da generazioni. E questa volta qualcosa di più. Il «fallimento dell’esperimento sociale americano» evidenziato dalle rivolte, come lo ha definito Cornel West, questa volta è rappresentato dalla convergenza dell’antica piaga razzista e una crisi socioeconomica che si profila catastrofica soprattutto per minoranze e vulnerabili.
Questo sollevamento nazionale avviene nell’ America dei 40 milioni di disoccupati dei 100.000 morti per Covid 19, il virus contenuto nei quartieri facoltosi e che dilaga invece in quelli dormitorio. L’esplosione catartica di rabbia squarcia un paese in un lockdown da 10 settimane che elargisce bilioni di sussidi a corporation e commissaria i mattatoi precettando i lavoratori.
ANCHE LOS ANGELES e Ferguson erano state esplosioni di comunità lumpen giunte allo stremo – un urlo primordiale, come diceva Martin Luther King già 30 e 50 anni prima, «di coloro che non hanno voce».
Erano cioè conseguenza inevitabile del retaggio razzista e del sistema – a partire dal ipertrofico complesso penale-industriale – preposto a perpetuare la segregazione. Mai però, come sostiene Robert Reich, quanto sotto Trump, il popolo americano è stato soggetto a tutta la pura forza del capitalismo e del darwinismo sociale, di una tale riasserzione degli interessi plutocratici.
È sotto questo regime, inasprito dalla pandemia, che è emerso il termine «lavoratori essenziali» – per ufficializzare un classe subalterna di produttori con semi-cittadinanza con «libertà» di lavoro ma senza accesso a rete sociale – a partire dall’assistenza. Un sistema incorona il primo «trilionario» (Jeff Bezos) e sancisce definitivamente la disuguaglianza abissale.
Nei «bantustan urbani» come li definiva Mike Davis, i ghetti storici ma anche quelli di dove convivono immigrati, precari, riders e gig workers che annaspano per restare a galla collezionando lavori e lavoretti – in questi luoghi topici del capitalismo crepuscolare e finanziarizzato la gente non ha più niente da perdere. (E in questo calcolo entra anche il consolidamento moderato dietro Biden che ha escluso dalla prospettiva le pulsioni progressiste di Bernie Sanders ed Alexandra Ocasio Cortez)
«VOLETE VIVERE comodamente e trattarci come animali?» ha chiesto una ragazza afro americana davanti al commissariato del terzo distretto in fiamme. «Bene state osservando cosa produce il dolore accumulato da anni e anni».
La voce dell’America che non riesce più a respirare, e non da oggi. Da dietro al suo servizio segreto ed i suoi «cani feroci» oggi Trump contempla l’inevitabile sfacelo e non è difficile intuire che raddoppierà la posta. Che proprio attorno all’esasperazione strumentale del conflitto imbastirà una campagna elettorale costruita ancora una volta sul panico bianco di quella base a cui rivolge i suoi velati appelli alla violenza.
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