In molti avevano creduto che dopo i fatti di Capitol Hill il trumpismo come fenomeno politico sarebbe stato archiviato, presentandosi al limite nelle forme di un estremismo suprematista tanto più radicale quanto residuale
Invece negli anni di governo di Joe Biden, nonostante i molti guai giudiziari, Trump ha consolidato nuovamente la propria base di consenso e a oggi ha già in tasca la nomitation come candidato presidenziale repubblicano. Abbiamo analizzato il trumpismo da più punti di vista, ma sempre con una certezza: non si trattava di un fenomeno né transitorio, né tanto meno contingente.
Può apparire paradossale, ma il trumpismo è addirittura per certi versi un movimento ancora in fase di espansione: molti sono gli intellettuali e i personaggi pubblici della sinistra radicale statunitense che in questi anni sono stati attirati dal buco nero, che si sono arruolati nella cosiddetta “destra dissidente”, spesso non solo per un tornaconto economico e personale, ma come ci spiega “In These Times” per quella che appare come una vera e propria crisi ideologica. Molti sono stati sedotti dalla narrativa working class del trumpismo, ancora presente, altri si sono progressivamente avvicinati a figure della destra radicale a partire dalla critica alla sinistra liberale.+
Ciò ha dell’incredibile se si considera che la costante trumpiana ha oggi sciolto molte delle sue ambiguità di partenza nella direzione proprio di una guerra civile per adesso mediata dalla politica. Ci sono pochi dubbi rispetto al fatto che se Trump verrà rieletto assisteremo a una “politica della vendetta” che attaccherà frontalmente tutti i settori sociali che si sono opposti alle sue politiche in passato. D’altro canto i cicli di movimento che hanno fatto tremare il trumpismo sono stati vampirizzati e repressi come sostiene Phil Neel in questa sua recente intervista:
Queste forze progressiste hanno ovviamente beneficiato enormemente della rivolta e continuano a farlo, senza offrire alcun sostegno a coloro che hanno subito questa orribile repressione e senza nemmeno pronunciare i nomi di coloro che sono stati uccisi, feriti e imprigionati. E non mi riferisco solo al fatto che ogni azienda apponga un adesivo BLM sul proprio marchio o all’abbraccio culturale generale di cose come l’equa rappresentanza e vaghi temi di giustizia sociale. È molto più di questo. La riabilitazione del Partito Democratico, per quanto a metà, è stata possibile solo perché la rivolta ha finalmente convinto queste forze che dovevano effettivamente incorporare alcuni di questi temi progressisti nei loro programmi. È proprio quello che è successo con la campagna di Biden e nelle successive elezioni di metà mandato. Troppe persone hanno riconosciuto la desolazione del mondo che ci circonda. La vecchia equazione centrista di far finta che tutto vada bene semplicemente non funzionava più – e naturalmente Trump lo ha dimostrato in modo decisivo.
In definitiva, non dovrebbe sorprenderci: è quello che succede sempre dopo le grandi rivolte. E più si va avanti, più bisogna impegnarsi nel processo di negazione e recupero. Né questa cecità è solo una cosa promossa dai liberali. Non credo che nessuno a “sinistra” abbia assorbito appieno la realtà di ciò che è accaduto. Quando se ne parla, lo si fa spesso con lo stesso registro di altre forme di lotta più limitate, e si sente sempre lamentarsi della presunta “mancanza di organizzazione”. Nessuno ha ancora fornito qualcosa di diverso da questi resoconti giornalistici di sinistra che cercano di offrire una telecronaca di ciò che è accaduto o di suddividere gli eventi in categorie demografiche troppo ordinate. E anche questi sono stati troppo limitati, concentrandosi su una o due città senza cogliere realmente la diversità di come la rivolta si è svolta nei diversi luoghi. Ma, altrettanto spesso, la rivolta viene sostanzialmente ignorata, a parte qualche riconoscimento generale della richiesta di una maggiore equità razziale. Ancora una volta, i quadri tradizionali della sinistra hanno davvero difficoltà ad affrontare o anche solo a comprendere il carattere complesso, nichilista ed eccessivo delle rivolte della nostra epoca.
Ciò che si ostinano a non comprendere ancora oggi molti commentatori è che il trumpismo da un lato e dall’altro i tentativi di uso dall’alto da parte dei democratici delle lotte sociali sono lo spartito di una latente guerra civile americana. Sono settimane che negli Stati Uniti è in corso uno scontro dal sapore ottocentesco tra lo stato del Texas e il governo federale sul confine con il Messico di cui si trovano pochissime tracce sui giornali italiani. Con la cosiddetta Operation Lone Star, Abbott, governatore repubblicano del Texas, ha fatto installare circa 30 miglia (48 km) di filo spinato lungo la frontiera con il Messico al fine di bloccare l’ingresso dei migranti. L’iniziativa di Abbot, trumpiano di ferro, sta degenerando in una vera e propria crisi costituzionale con la Casa Bianca. Lunedì 22 gennaio la Corte Suprema ha stabilito che la Border Patrol federale può rimuovere il filo spinato installato dalla Guardia Nazionale del Texas, ma Abbott ha promesso di aggiungerne altro. 25 dei 27 governatori repubblicani hanno rilasciato una dichiarazione congiunta di solidarietà con Abbott promettendo l’invio della propria Guardia Nazionale in sostegno al governo texano nel caso in cui si arrivasse allo scontro con il governo federale.
E’ evidente che la recrudescenza di questo scontro è legata almeno in parte alla tornata elettorale presidenziale, ma non è né il primo né il più clamoroso caso di una crisi istituzionale senza precedenti che si è aperta quel 6 gennaio 2021. Il fatto stesso che quattro anni dopo Trump sia in corsa per le elezioni invece che espatriato altrove o chiuso in qualche prigione è indice di quanto gli Stati Uniti siano seduti su una pentola a pressione pronta a esplodere. Appena poche settimane fa si è consumata un’altra sconfitta del governo di Joe Biden: il portavoce del consiglio per la sicurezza nazionale Usa John Kirby ha annunciato che i fondi stanziati dal Congresso americano per sostenere l’Ucraina nella guerra contro la Russia sono finiti, e l’assistenza degli Stati Uniti “si è interrotta”, lanciando un appello affinché un’intesa bipartisan sblocchi nuovi finanziamenti. Anche qui la possibilità di un accordo tra repubblicani e democratici sarebbe condizionata all’attuazione di misure più dure nei confronti dell’immigrazione, nonostante il governo di Biden si sia distinto, a prescindere dagli annunci della campagna elettorale, per una svolta a destra anche in questa materia. I giornali liberali come The Atlantic parlano del “grande tradimento” dei repubblicani e scrivono che “Il vero risultato del fiasco al Congresso sarà il crollo della credibilità degli Stati Uniti in tutto il mondo. Gli alleati americani cercheranno protezione da partner più affidabili e l’America stessa sarà isolata e indebolita.” CounterPunch invece da un punto di vista più radicale ci offre una divertente rassegna dello stato del dibattito pubblico negli USA tra rincoglionimento senile e ipocrisie varie dall’evocativo titolo “L’impero impotente”.
Che la prossima tornata elettorale sia uno scontro tra ottuagenari pugili suonati è fuor di dubbio, ma ciò che ci sta dietro merita uno sguardo più profondo.
Le contraddizioni interne ed esterne agli Stati Uniti stanno rendendo sempre più fragile la capacità di comando, a una velocità per certi versi inattesa. Oggi il governo degli USA si trova nella situazione inedita e paradossale di non poter perseguire momentaneamente i propri obbiettivi strategici esteri perché i suoi assetti istituzionali sono in conflitto costante, la sua opinione pubblica è ostile, in forme differenti, all’imperialismo a stelle e strisce e gli alleati li tirano per la giacchetta in dispendiosi e pericolosi pantani di guerra come potrebbe succedere in Medio Oriente. Il famigerato pragmatismo statunitense si sta trasformando in un campare alla giornata.
Non è detto che questa guerra civile, che alcuni guru della destra americana si augurano in maniera messianica, arrivi a esplodere apertamente, ma il continuo logoramento interno, la scomposizione degli interessi spinge verso la degradazione degli assetti istituzionali, potenzialmente una possibilità per l’emersione di una più serrata lotta di classe (che comunque in questi anni ha mostrato una lenta ripresa), probabilmente un ulteriore imbarbarimento della società.
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