MILANO – Il Fondo monetario internazionale mette nel mirino la “fame di energia” che accomuna l’attività di creazione dei Bitcoin (il cosiddetto mining) e quella dei cervelloni che alimentano l’Intelligenza artificiale. Arrivando a domandare una tassazione dedicata per affrontare il tema, che nel caso dei minatori di Bitcoin dovrebbe esprimersi in un +85% dei costi per l’elettricità: solo così si riuscirebbero a centrare gli obiettivi globali di riduzione delle emissioni e apportare benefici miliardari ai bilanci pubblici.
La questione è rilanciata in un articolo ferragostano del Fmi, e non passa inosservata ai sostenitori delle crypto che attaccano la posizione di Washington rimarcando che si basa su studi datati e che non tengono conto dei miglioramenti di efficienza dei processi che stanno a monte dello scambio di valute digitali.
Il blog del Fondo muove da alcuni suggestivi confronti: una transizione in Bitcoin beve la stessa energia che serve a una persona in Ghana o Pakistan per tre anni. E una domanda a ChatGpt ha un consumo dieci volte superiore a una interrogazione di Google. Se nel 2022 miners e data center pesavano per il 2% della domanda di energia globale, la stima del Fmi è che da qui a tre anni si salirà al 3,5%: tanto quanto il Giappone, quinto utilizzatore al mondo di energia. Se si svolge il tema più prettamente sul fronte ambientale, la combinazione delle due attività è vista occupare l’1,2% delle emissioni globali di carbonio, sempre al 2027.
Come prendere di petto la questione? Nella visione di Washington, bisogna calibrare il sistema fiscale in modo da portare gli operatori economici a tagliare le emissioni. Il Fmi calcola che, per mettere l’industria del mining in linea con gli obiettivi globali di emissioni, servirebbe una imposta diretta di 0,047 dollari per kilowattora. Considerando anche la compensazione degli impatti locali dell’inquinamento, si salirebbe a 0,089 dollari ovvero un +85% del prezzo medio dell’elettricità per i minatori. Ovviamente sarebbe per loro una mazzata, considerando che già di recente hanno dovuto far fronte alla riduzione della “compensazione” per la loro attività di mining e hanno ri-collocato i loro potenti computer vicino a fonti di energia a buon mercato.
Per i governi una simile imposta significherebbe invece incrementare le entrate globali di oltre 5 miliardi di dollari, con il beneficio di ridurre le emissioni per l’equivalente di un Paese come il Belgio.
Il Fmi denuncia invece che ad ora sono più frequenti gli schemi incentivanti per data center e affini. E che non sia chiaro come mai esistano queste agevolazioni fiscali, visto che non ci sono apprezzabili impatti dal punto di vista occupazionale e anzi è forte il conto ambientale. Proprio per i maxi-poli di server, il Fondo calcola che una tassa mirata dovrebbe essere fissata a 0,032 dollari per kilowattora, o 0,052 dollari includendo i costi dell'inquinamento atmosferico. Un “bottino” per le casse pubbliche da 18 miliardi di dollari.
L’utopia per affrontare davvero la questione climatica è quella di una tassa sulle emissioni, coordinata a livello globale. Anche il Fondo sembra consapevole del fatto che resta un discorso da libro dei sogni. E allora propone interventi mirati, riconoscendo che la stessa AI può esser utile a diffondere un impiego più efficiente dell’energia, ma che servono misure drastiche per “convincere” questi nuovi grandi consumatori a fare di più.
Nessun commento:
Posta un commento