New York - Esiste una religione americana? All' ultimo conteggio, 175 milioni di americani adulti si dichiaravano vagamente "aderenti" a un credo religioso. Di questi, 147 milioni (59,3 per cento della popolazione) risultavano membri delle 64 "chiese" o denominazioni ufficiali (non contando cioè fenomeni come le religioni New Age, Contro New Age, "serpentisti" e altre diavolerie californiane). Le denominazioni riconosciute, a loro volta, si suddividono in 156 gruppi, tra cui il più forte è quello cattolico (57 milioni), più monolitico anche se meno numeroso di quello protestante (79 milioni).
Ma esiste un concetto che si possa chiamare "religione americana"? Questa domanda è il punto di partenza di un sorprendente saggio di Harold Bloom, The American Religion (Simon and Schuster, pagg. 288, dollari 22), titolo che si completa con una tesi assai sibillina, "L' emergenza della nazione post-cristiana", e che sta provocando un dibattito feroce negli Stati Uniti - dibattito che vede schierati da una parte Bloom, dall' altra tutti gli uomini di cultura che, come lui, cercano di uscire dal vuoto ideologico creatosi dopo la messa al bando di tutte le ideologie negli ultimi anni. Che la direzione giusta sia la fede? Bloom sostiene che una religione definibile "americana" c' è, nonostante la frammentazione, e non è nel coagulo di tutte le "sette" (come altri hanno suggerito). E' in qualche cosa di più profondo che risiede nell' individuo e che prescinde dall' appartenenza a questa o quella organizzazione e dal rispetto di un rituale quotidiano o domenicale. Nell' esplorazione di questo qualche cosa, diciamo subito, lo studioso va al di là della religione: vuol capire chi è l' americano in questa fin-de-siècle. Due profeti stravaganti Harold Bloom, "professor of the Humanities" di Yale, critico letterario formatosi più nell' area di Blake e Shelley che in quella di Eliot e della Nuova Critica, proveniente dalla "classe operaia ebraica (ora estinta)", un "ebreo non-credente di forti tendenze gnostiche" (citazioni da uno scritto di Alfred Kazin), e che in questa sede si dichiara "non storico, né sociologo o psicologo delle religioni, e tantomeno teologo", forgia per sé la veste di "critico religioso" (meglio sarebbe dire della religione), apparentandosi con nobili precursori: Emerson, Whitman, William James, Stevens. E' però ad altri due "profeti" che quarda come capisaldi della religione americana: Smith e Mullins. Joseph Smith jr., fondatore della chiesa mormone, incarcerato per poligamia e linciato nel 1844, a 38 anni, e Edgar Young Mullins, il teologo che suggellò l' avvento del predicatore-farmer nel Sud, gli forniscono la profezia che "nel ventunesimo secolo la vita religiosa americana avrà come cardini la chiesa mormone e un ramo di quella battista sudista", ma solo per il concetto di Dio che predicano. Mormone e battista, infatti, sono termini di comodo. La vera religione americana secondo Bloom trascende tutte le denominazioni teologiche: è "un' esperienza non-mediata dell' Io umano in quanto Dio". Lo gnosticismo di base riverbera nella certezza che la separazione tra umano e divino è un' illusione che "evapora con l' illuminazione portata dalla gnosis", la conoscenza. In altre parole: Dio è nell' uomo, Dio esiste in quanto lo fa esistere l' uomo dentro di sé. L' essenza della religione è questa. Mentre da una parte Bloom difende la sua diagnosi rifacendosi alle componenti classiche dello gnosticismo (cristianesimo, neo-platonismo e concetti orientali), dall' altra - dovendo fare i conti con uno spiegamento di "chiese organizzate" come quello americano - analizza il passato e il presente di mormoni, pentecostali, testimoni di Geova, avventisti, cristiano-scientisti e fondamentalisti battisti, dai quali estrae i due supporti maggiori, e trascura quasi del tutto cattolici, presbiteriani, luterani e altre varianti della dottrina protestante. Il vero, il più radicato concetto di democrazia tra gli americani, sostiene Bloom, non si trova nei fatti politici, ma in ciò che Joseph Smith tentò di fare: "immettere nella vita spirituale quello che la rivoluzione americana aveva portato nel mondo sociopolitico, l' abolizione delle gerarchie". In che modo? Con l' instaurazione del matrimonio plurimo, che, essendo involucro di una pura teurgia sessuale, abolisce la gerarchia più forte, distruggendo la dipendenza dell' uomo da Dio. Smith ebbe ottantaquattro mogli, e Bloom osserva che "l' America divenne una nazione senza profezie" quando fu abolita la poligamia mormone. Il che, sempre secondo Bloom, non impedì alla natura maschile di continuare a essere ciò che era sempre stata: poligama. (Di qui il "caos sessuale" del ventesimo secolo). Sconfinato così nel perimetro socio-religioso, Bloom ripercorre le tappe della chiesa battista in America, emanazione di quella inglese, e scopre che la "più profonda soggettività" dei fondamentalisti sudisti, "gnostici loro malgrado" ("non hanno mai creduto di essere stati creati da Dio"), contiene l' apporto africano (gli schiavi), una fede che al cosmo nero ha sempre anteposto l' esistenza di un nucleo non-creato in ogni essere umano. La religione americana si profila dunque composta di dogmi mormoni e nero-battisti nella loro accezione gnostica. Il resto è commercio di anime. Ora, sostenere che la religiosità (se non la religione) degli americani sia destinata a seguire un paradigma così composito, non può non offrirsi agli attacchi più violenti, e per due ragioni: perché le "sette" a cui si appella Bloom raccolgono appena 15 milioni (battisti) e 4 milioni (mormoni) di persone, e perché l' impasse spirituale, culturale, ideologica, in ultima analisi politica, in cui si dibattono gli studiosi americani non può trovare soluzione in una "formula" così stravagante. Sarebbe come dire (osservano certi) che la fede battista prevale perché Clinton e Gore, che sono battisti, puntano alla Casa Bianca! Il fronte anti-Bloom ha buon gioco. Lo accusano di esplorare la cittadella della religione da romantico qual è ("il nocciolo del romanticismo è sempre stato la superiorità dell' io interiore e segreto"); di affidarsi a una "critica religiosa" - ammesso che una bestia simile esista - allenata nella palestra della "prosa poetica" (lo disse lui stesso nel 1973); di essere talmente contagiato dalla "genialità" di Joseph Smith da dimenticare che ben altra teurgia sessuale ha travolto le gerarchie (la donna non è più "una delle mogli" dell' uomo); di insistere sulla rivelazione individuale come "deificazione" di se stesso, Harold Bloom; di aver frainteso perfino Emerson quando diceva che "se un uomo è giusto in cuor suo, in questo senso egli è Dio". Una totale solitudine Bloom, dicono, sorvola su troppe cose; altre le fraintende quando gli fa comodo. Il pietismo europeo e il puritanesimo inglese per lui non hanno nemmeno attraversato l' Atlantico. Joseph Smith pensava alla Cabala più di quanto ci pensi Bloom, che se proprio voleva rifarsi al vero gnosticismo americano perché non tirare in ballo Mary Baker Eddy, fondatrice della chiesa cristiano- scientista, convinta che l' uomo fosse solo un riflesso di Dio (e i sensi un' illusione)? Gli attacchi continuano; e il teologo ride. Ma - come spesso accade con i libri di Harold Bloom - nessuno si è sforzato di capire che egli offre un grande e tortuoso bla-bla religioso, mentre in effetti parla d' altro. E' vero che batte sul chiodo della cristianità protestante che ha smesso di essere cristiana, o che ha assunto una "superficie cristiana" (l' andare alla messa) che nasconde una segreta religiosità privata di stampo gnostico. E' però anche vero che Bloom parla in effetti (e qua e là scopertamente) di "totale solitudine interiore" dell' americano, che non a caso coincide con l' esacerbato individualismo di tutta la sua cultura, religiosa e non religiosa. La "solitudine della religione americana", dice Bloom, è più forte di tutte le congregazioni che "mescolano l' uomo alla massa in 412.012 luoghi di preghiera". "L' americano trova Dio in se stesso solo dopo aver trovato la libertà di conoscerlo in totale solitudine". L' 88 per cento degli americani crede che Dio li ami personalmente, il 22 per cento parla direttamente con Dio. "Siamo una società immersa nella religione", scrive Bloom. Ma poi insinua che la vera religione, come la società, non è organizzata. "L' americano è solo": il superamento dell' impasse non può che partire da qui, sperando che, per cominciare, l' individuo "entri nella società" come ora va in chiesa. Altrimenti non gli resta che il dialogo, appunto, con se stesso. O con Dio.
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