L’opinione pubblica si chiede come mai il presidenzialismo americano, un sistema decisionale rapido ed efficace, sia stato paralizzato dalla crisi che ha portato allo shutdown. La risposta sta nel «governo diviso» al cuore dell’architettura politicoistituzionale degli Stati Uniti, che prevede la netta separazione di presidenza e Congresso, dedicata non solo alla divisione dei poteri ma anche al bilanciamento dei pesi e contrappesi per arginare il potere delle istituzioni pubbliche. L’esecutivo presidenziale e il legislativo parlamentare traggono legittimità da prove elettorali distinte, e non sono collegati da alcun voto di fiducia per cui, quando c’è contrasto, possono ostacolarsi a vicenda.
Il presidente può porre il veto sulle delibere del Congresso, e le due assemblee (Camera e Senato) possono, insieme o separatamente, bloccare le decisioni presidenziali.
Il sistema «diviso» funziona bene se entrambi i partiti rispettano quel consenso sulle questioni fondamentali che da sempre costituisce l’amalgama della politica americana, anche nella diversità di orientamento tra le forze partitiche. Infatti, si giunge al compromesso legislativo tra presidenza e Congresso di diverso colore politico (attualmente solo la House of Representatives ha una maggioranza repubblicana), quando il comune interesse per i valori nazional-costituzionali prevale sulle spinte partigiane. Questa volta, invece, è accaduto l’opposto: gli eletti repubblicani del Tea Party hanno voluto intenzionalmente rompere il consenso senza alcuna possibilità di accordo. Il gruppo degli ultraconservatori, sulla base di un’ispirazione che intreccia populismo, libertarismo, fondamentalismo religioso e grandi interessi economico-finanziari, ha proclamato che Obama è un islamico «antiamericano », che il sistema politico è divenuto «socialista», che lo Stato-leviatano della riforma sanitaria distrugge la libertà degli americani, e che l’obiettivo non negoziabile resta la rimozione dell’intruso dalla Casa Bianca e l’annullamento della sua principale legge.
La crisi, dunque, del sistema americano nasce dalla rottura della tradizione consensuale a opera di una corrente, minoritaria ma aggressiva in questo momento di crisi, che lo storico Richard Hofstadter ha definito The Paranoid Style in American Politics (lo stile paranoico nella politica americana). Certo, non è la prima volta che i gruppi oltranzisti acquistano rilievo sulla scena nazionale; ma l’impatto dei Tea Party sul sistema risulta oggi superiore al loro stesso peso elettorale perché il partito Repubblicano in Congresso è stato preso ostaggio da questa minoranza capace di sfruttare al massimo la retorica della bandiera. Se guardiamo al futuro, tuttavia, a me non pare che il sistema politico-istituzionale, resistente da due secoli pur con piccoli aggiustamenti, possa subire grandi cambiamenti. È invece probabile che il partito Repubblicano, se vorrà concorrere con speranza alle presidenziali del 2016, dovrà riallinearsi al centro, la dislocazione che più consente di attirare l’elettorato decisivo per qualsiasi affermazione elettorale. Saranno comunque le elezioni di mezzo termine del 2014 che sanciranno il giudizio degli americani sulle responsabilità dello shutdown e determineranno i futuri orientamenti sia dei repubblicani che dei democratici.
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