lunedì 14 luglio 2014

ROMANZO E SOCIETA' USA. INTERVISTA CON J. ELLROY. A. FARKAS, Niente PC e TV: vivo solo nel passato, LA LETTURA, 6 luglio 2014

L’esordio non è promettente. «La mia assistente si è sbagliata: no, non posso assolutamente darle 60 minuti del mio tempo ». Ma poi James Ellroy finisce per parlare ben più di un’ora, rivelando a ogni risposta la scontrosità mista a fervore tipica dei grandi scrittori. Sabato 19 luglio l’autore di L.A. Confidential, Dalia nera e American Tabloid sarà tra i protagonisti di Collisioni, la sesta edizione del festival internazionale di letteratura e musica che si svolgerà dal 18 al 21 luglio a Barolo, nella cornice delle Langhe piemontesi. «Non bevo vino e detesto i tartufi almeno quanto la politica e la cultura contemporanea», si schermisce il sessantaseienne autore. «Nella piazza di Barolo parlerò di Los Angeles dal dopoguerra al 1972, del film noir e di me stesso. Parlerò, soprattutto, della storia della mia città».


La città degli angeli torna protagonista nel suo prossimo libro, «Perfidia», che verrà pubblicato a settembre negli Usa e a marzo del prossimo anno da Einaudi Stile libero.
«È il primo volume della mia seconda tetralogia di Los Angeles, che inizia con l’attacco di Pearl Harbor nel dicembre 1941 e finisce dopo la vittoria sui giapponesi del V-J Day. Ho riesumato i personaggi della prima tetralogia di Los Angeles ambientata dal 1946 al 1958 (Dalia nera, Il grande nulla, L.A. Confidential e White Jazz) e quelli della Trilogia Americana che va dal 1958 al 1972 (American Tabloid, Sei pezzi da mille e Il sangue è randagio) e li ho trasportati a Los Angeles durante la Seconda guerra mondiale».
Un autentico prequel, insomma, con gli stessi personaggi molto più giovani?
«Sì. Tornano oltre una quarantina di personaggi già noti, tra cui il perfido Dudley Smith, che avrà una love story con Bette Davis, la protagonista di Dalia nera Kay Lake, e William H. Parker, il più grande poliziotto del XX secolo. Per evitare di contraddirmi ho dovuto ristudiare i miei primi sette libri. Il mio scopo è combinare le tre saghe per creare un’epopea narrativa di Los Angeles e dell’America, dal 1941 al ’72. Una vera storia popolare degli Stati Uniti».
In «Perfidia» lei affronta lo spinoso tema dell’internamento dei giapponesi negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale.
«Fu una terribile ingiustizia. Giapponesi innocenti, tanti con la cittadinanza Usa, furono espropriati e rinchiusi come nemici in campi di internamento attrezzati dalla War Relocation Authority nell’ovest del Paese».
Intendeva lanciare un messaggio contro le nuove segregazioni dell’America?
«La gente trarrà le conclusioni che vuole e dirà che ho denunciato la discriminazione anti-nipponica per condannare l’odierna persecuzione degli ispanici: è inevitabile. Che Perfidia stimoli pure gli animi, creando compassione e saggezza per migliorare il presente. Ma non era certamente questa la mia intenzione».
In un’intervista ha definito Barack Obama «il volto del socialismo canceroso nascosto sotto una maschera di bonarietà», ma in un’altra ha detto di averlo votato.
«Ma se nel 2008 non sono neppure andato al seggio! Ho detto di averlo votato per burlarmi dei troppi creduloni e vedere quanto avrebbero impiegato a scoprire la mia beffa. Chi mi conosce sa che io non discuto di politica con nessuno, mai e per nessun motivo. A meno che non si tratti di politica degli anni Quaranta. Cioè di storia».
Come nasce il suo amore per le vicende del passato?
«È una passione che si è formata nella mia immaginazione, dove per me tutto inizia e tutto finisce. Quando ero piccolo, negli anni Cinquanta, la Seconda guerra mondiale in America era un’ossessione collettiva, al punto che pensavo non fosse ancora finita, nonostante gli sforzi di mia madre per convincermi del contrario. Anche oggi mi interessano solo gli eventi che riflettono l’esperienza americana dal 1930 al 1972. Tutto il resto è out».
La storia è meglio della fiction?
«Lo è per me che amo le epopee, i romanzi epici, interminabili, ricchi di tematiche e di passione, le guerre catastrofiche, la grande musica sinfonica».
Quali sono state le sue muse letterarie da piccolo?
«Ross Macdonald e Joseph Wambaugh, autore de Il campo di cipolle: un libro straordinario. A anche James M. Cain, Dashiell Hammett, Eric Ambler, che trovo più profondi e complessi di Raymond Chandler. Non ho mai letto Agatha Christie, ma ho amato Sherlock Holmes e James Bond».
Chi stima di più tra i suoi contemporanei?
«Il noir contemporaneo non mi interessa. Non ho mai letto Dan Brown, John Grisham, Scott Turow, Stephen King, Michael Connelly, Michael Crichton, Patricia Cornwell, James Patterson, tanto per citarne alcuni. Lessi Le Carré negli anni Settanta».
Proprio in questi giorni, sempre per Einaudi Stile libero, è apparso l’adattamento a fumetti di «Dalia nera».
«Scrissi quel libro molti anni fa. La sua versione fumettistica è molto bella, ma si discosta notevolmente dall’originale. Il mio input è inesistente: qualcun altro si è preso la briga di adattare il mio libro, con un ottimo risultato».
Dopo tanti film tratti dalle sue opere anche «American Tabloid» arriverà sugli schermi, diretto e interpretato da James Franco.
«Balle. Franco ne parla da anni, ma non lo farà mai. A Hollywood la gente ama riempirsi la bocca di parole. Ma non mi chieda un giudizio spassionato su quei film: non criticherò mai la versione cinematografica dei miei lavori dopo averne incassato cospicue parcelle».
Secondo i critici il suo stile scarno e conciso, quasi sperimentale, ha rivoluzionato la «crime fiction».
«La gente può continuare a considerarmi un crime writer, ma non lo sono. Oggi mi considero un autore di romanzi storici o un romanziere tout court. Amo la lingua inglese e lo slang, il patois e lo yiddish, le invettive razziali, le allitterazioni, gli accenti regionali. In altre parole: il potere dell’americano colloquiale terra terra, che definisce non solo luoghi, personaggi e valori, ma anche l’epoca storica. Comunque lo slang degli anni Quaranta era molto diverso e in Perfidia mi sono preso non poche licenze poetiche ».
Preferisce lo slang contemporaneo?
«Io vedo la realtà con lenti molto personali e poiché non mi interessa affatto partecipare alla cultura contemporanea, non so cosa l’America stia producendo linguisticamente. Quando m’imbatto per strada in gente incollata a tablet e telefonini, non vedo l’ora di tornare nell’oasi protetta della mia casa e della mia scrivania, felice di non dover interagire con quell’umanità. Non posseggo computer, televisori o cellulari. Non vado al cinema e non navigo in internet. Vivo nel mio mondo, dentro al mio cervello, in un passato remoto dove mi sento perfettamente felice».
Per questo non le interessa scrivere della Los Angeles di oggi?
«Già. E se non fosse per gli amici e gli obblighi di lavoro, andrei a vivere a Cold Spring, un villaggio storico un’ora e mezza a nord di Manhattan».
La tragica morte di sua madre nel 1958, quando lei aveva soltanto dieci anni, ha determinato le sue scelte esistenziali e artistiche? È lei la voce nascosta dietro al suo lavoro?
«L’assassinio di mia madre, irrisolto dopo oltre 50 anni, mi ha spinto a interessarmi di crimine, ma è impossibile stabilire dove finisce il suo input e iniziano le mie elucubrazioni personali. Non è vero che ho iniziato a scrivere per curare lo stress post traumatico provocato dalla sua linguistiscomparsa. Sono asociale per natura e adoro pensare storie dove cose terribili accadono a sconosciuti».
Da dove vengono i suoi antenati?
«I miei nonni erano inglesi protestanti. Mio padre, che a tre anni e mezzo mi insegnò a leggere, è morto nel 1965. Era un individuo pigro, menefreghista e indolente, che divorziò ben presto da mia madre. Io non lo rispettavo, anche se era un sognatore gentile e aveva lavorato come contabile di Rita Hayworth. Era uno dei tanti topi che sguazzano nelle fogne ai margini della grassa Hollywood ».
Dopo la sua morte lei ebbe un lungo periodo di crisi — furti, alcol, droga — e finì in carcere e poi homeless, prima di incontrare Dio.
«Il Dio che mi ha salvato è entrato nella mia stanza in molte occasioni. L’ho visto col cuore, non con gli occhi, e non mi vergogno di dire d’essere, oggi, un cristiano credente e praticante».
Chi è il vero James Ellroy?
«Un tipo solitario e meticoloso che lavora 14 ore al giorno e sta seduto nel suo studio, ridendo di cose per nulla divertenti e bramando tutto ciò che è passato e non potrà mai vedere. Ho imparato a vivere nella mia mente, scavando al suo interno alla ricerca di drammi, tragedie, incidenti e personaggi che mi aiutano a creare mondi immaginari su larghissima scala».
Se dopo la morte potesse reincarnarsi, chi le piacerebbe essere?
«Vorrei tornare nei panni di Beethoven: il più straordinario e misterioso artista della civiltà umana».

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