lunedì 9 marzo 2015

CAPITALISMO MADE IN USA. SILICON VALLEY. E. MOROZOV, Il welfare della Silicon Valley che crea l'illusione dell'equità, LA LETTURA, 2015

Probabilmente il mondo considera la Silicon Valley la punta del capitalismo più estremo, ma gli imprenditori della tecnologia pensano in realtà di essere dei sostenitori della solidarietà, dell’autonomia e della collaborazione. Questi capitalisti umanitari credono sinceramente che i difensori dei deboli e dei poveri siano loro, non certo i politici impostori o le inefficaci organizzazioni non governative. Chi altri infatti potrebbe indurre i perfidi mercati a offrire ampi vantaggi materiali a chi vive ai margini della società? Alcuni degli intellettuali della Silicon Valley festeggiano addirittura l’inizio di un «socialismo digitale», che — citando l’articolo del 2007 di Kevin Kelly su «Wired» — «potrebbe essere una terza via che rende irrilevanti le vecchie diatribe».


Mettiamo da parte le infinite polemiche sul vero significato di «condivisione » in perifrasi come l’«economia della condivisione», guardiamo piuttosto al fatto che sotto questa retorica autocelebrativa si scorge un aspetto interessante. La magnanima Silicon Valley vuole essere il perfetto antidoto all’avida Wall Street: se quest’ultima crea sempre più forti disparità di reddito, la prima contribuisce a colmare il divario nella disuguaglianza dei consumi. Questo significa che anche se guadagniamo molto meno del nostro ricco vicino, entrambi pagheremo molto meno — forse nulla — per ascoltare musica su Spotify, fare ricerche su Google o guardare video divertenti su YouTube. Presto questa logica si potrebbe applicare anche all’accesso a internet: Internet.org, il fiore all’occhiello di Facebook nel mondo in via di sviluppo, offre agli utenti un accesso nominalmente gratuito a servizi online di base come Facebook o Wikipedia.
Quando l’istruzione, la sanità e altri servizi passeranno online, al cloud, la Silicon Valley avrà un ruolo ancora maggiore in queste faccende. Condividendo i nostri dati sanitari, Google potrebbe avvertirci se rileva sintomi preoccupanti. E questo non offrirebbe una qualche assistenza sanitaria minima a persone che altrimenti non sarebbero in grado di permettersela? E, in mancanza di alternative, chi si opporrebbe al fatto che Google salvi delle vite umane? Il ritornello della Silicon Valley sul «maggior potere all’utente» si basa su questa prospettiva. A fronte delle carenze del Welfare State, incapace di mantenere le promesse fatte alla gente, la Silicon Valley offre una nuova rete sociale: anche se siamo costretti a vendere l’auto e non riusciamo a pagare il mutuo, non perderemo mai l’accesso a Spotify e Google. Si potrebbe ancora morire di fame, ma non più morire di fame di contenuti. Ma prima che le nostre auto e case scompaiano, la Silicon Valley potrebbe aiutarci a trasformarle in una risorsa produttiva. Grazie a start-up come la britannica JustPark — un’applicazione ora in voga che consente ai proprietari di un posto auto non utilizzato di affittarlo a conducenti disperati — anche le disuguaglianze di reddito possono essere colmate, almeno in parte.
I cittadini dovrebbero esser contenti: non solo non devono pagare nulla per i servizi essenziali, ma possono anche integrare il loro reddito stagnante mettendo a frutto un capitale che prima era «inerte». La pretesa di essere il grande ridistributore è quel che rende la Silicon Valley impermeabile alle critiche sociali.
Ma le premesse del suo capitalismo umanitario non sono rigorose e incrollabili come sembra. Ci sono almeno tre linee di critica possibili. Per prima cosa, un aumento nominale dell’uguaglianza nei consumi non comporta sempre un corrispondente aumento dell’autonomia dell’individuo, anzi potrebbe avere l’effetto opposto. Per godere di tutte le opportunità che la Silicon Valley ci offre — compresi progetti apparentemente mirabolanti come Internet.org — si deve prima accettare di condividere i propri dati. Bisogna essere molto ingenui per credere che questi dati non condizioneranno la nostra vita futura, visto quanto le compagnie di assicurazione e le banche sono ansiose di poterne tenere conto nelle loro decisioni. Il risultato finale sarà una diminuzione degli attriti sociali, dato che cominceremo a regolare il nostro comportamento sapendo che quel che facciamo influirà in qualche modo su tutto il resto. Questo significherà anche che chi può permettersi di pagare quei servizi che il resto di noi può avere gratuitamente potrà godere in futuro di un’autonomia ancora maggiore: pensate alle persone che già oggi non devono preoccuparsi di mostrare le credenziali per accendere un mutuo o chiedere un prestito. Di certo non saranno loro a preoccuparsi dei giudizi dei conducenti Uber o di possibili problemi con l’assicurazione perché hanno saltato la palestra.
In secondo luogo, la favola del «più potere all’utente» che ci racconta la Silicon Valley è, appunto, soltanto questo: una favola. Nasconde il fatto che le informazioni nominalmente libere disponibili su Google non hanno la stessa utilità per un laureato disoccupato o per un hedge fund che in via riservata ha accesso alla sofisticata tecnologia per trasformare i dati in informazioni finanziarie. Lo stesso vale per i servizi che canalizzano l’attenzione come Twitter: non sono ugualmente utili a chi ha in media 100 seguaci e a un capitalista d’assalto seguito da un milione di persone.
Sembra pertanto ovvio che liberalizzare l’accesso ai servizi di comunicazione non elimina di per sé, e nemmeno attenua, altri tipi di disuguaglianza. Ma dovremmo preoccuparci di questo, se la parità di consumi è tutto quel che conta? Certamente. La Silicon Valley, dopo tutto, ha fatto ben poco per diminuire le disuguaglianze in ambiti come quello della proprietà della casa, e non sembra proprio che abbia intenzione di rivoluzionare il settore immobiliare. In altre parole, per rendere meno rilevanti altri tipi di disuguaglianza, la Silicon Valley dovrebbe anche fornirci di alloggi e alimenti gratuiti: solo allora si potrebbe sostenere che il lautissimo stipendio del nostro vicino finanziere è irrilevante, dato che tutti i nostri bisogni essenziali sono coperti.
Questo solleva però la terza e più preoccupante questione: che bisogno c’è di avere uno Stato, se la Silicon Valley può magicamente fornirci i servizi di base, dalla scuola alla sanità? E, ancor più, perché continuare a pagare le tasse e finanziare servizi pubblici inesistenti, che saranno forniti — con criteri molto diversi — dalle aziende di tecnologia? Questa è una domanda alla quale né lo Stato né la Silicon Valley sono preparati a rispondere. Si ha l’impressione, però, che allo Stato moderno non dispiacerebbe se le aziende di tecnologia avessero un ruolo più ampio, perché potrebbe così concentrarsi sull’obiettivo che predilige: la guerra al terrore.
I cittadini, che non sono ancora pienamente consapevoli di questi problemi, alla fine si renderanno conto che la scelta oggi incombente non è tra il mercato e lo Stato, ma tra la politica e la nonpolitica. È la scelta tra un sistema privo di qualsiasi immaginazione istituzionale e politica (in cui una combinazione di hacker, imprenditori e finanzieri è la risposta base a ogni problema sociale) e un sistema in cui sono ancora dibattute soluzioni esplicitamente politiche, che possano stabilire chi (i cittadini, le imprese, lo Stato) dovrebbe possedere cosa e in quali termini. Il «socialismo digitale» chiaramente non è questo.
(traduzione di Maria Sepa)

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