I critici non mancano: tra i tanti che considerano The Road to Character il coraggioso tentativo di un giornalista di andare non solo oltre la cronaca, ma anche oltre i valori che ti fanno arrivare rapidamente al successo, c’è anche chi considera quello di David Brooks, più che un libro, un interminabile sermone. E Matt Taibbi, beffardo e radicale come sempre, su «Rolling Stone» liquida il celebre columnist del «New York Times» con un definitivo: «È il più grosso trombone dell’emisfero occidentale».
Quantomeno non mi nega la grandezza, deve aver pensato Brooks, che non replica e continua, imperterrito, il suo giro di conferenze attraverso l’America. A sentirlo, sembra davvero un predicatore con quei suoi moniti ai genitori ad amare i figli per quello che sono e non per la loro capacità di rispondere agli stimoli di padri e madri che sognano per loro carriere folgoranti: fiori all’occhiello della famiglia da esibire in pubblico. O con le sue riflessioni sul deterioramento di una società che ha cancellato l’umiltà dal suo orizzonte morale e pretende di trasformare l’autoreferenzialità nella struttura portante della natura umana.
Certamente Brooks non piace ai sociologi quando illustra il crescente desiderio dei giovani di diventare famosi con tre statistiche: nei sondaggi di quarant’anni fa il raggiungimento della celebrità era al penultimo posto in una lista di 16 ambizioni, oggi il 51% dei ragazzi intervistati considera quella di diventare famoso una priorità assoluta. E nella classifica delle persone con le quali una ragazzina della scuola media vorrebbe andare a cena, la medaglia d’oro la conquista Jennifer Lopez, seguita da Gesù e da Paris Hilton (Brooks qui cita un’indagine non recentissima: oggi, forse, la spunterebbe Miley Cyrus). Infine, posti davanti all’alternativa se diventare gli assistenti di una celebrity come Justin Bieber o il rettore di Harvard, l’università più celebrata d’America, due ragazzi su tre scelgono l’opzione Bieber.
I filosofi, a loro volta, storcono il naso quando vedono il saggista semplificare l’analisi di una società che ormai valuta le persone più sulle doti utili per costruire il proprio curriculum professionale che sui valori morali. Per farsi capire, Brooks usa due categorie, Adamo1 e Adamo2: una banalizzazione forse eccessiva. E non originale, visto che l’ha presa a prestito dal rabbino Joseph Soloveitchik che, mezzo secolo fa, aveva immaginato due diversi racconti della Genesi con due diversi tipi di Adamo.
Di critiche se ne possono muovere tante, ma rimane un fatto: gli editoriali che il columnist pubblica su argomenti tratti dal libro che ha appena pubblicato negli Stati Uniti con Random House sono quasi sempre i più letti del «New York Times». Mentre le presentazioni di The Road to Character non solo sono affollate, ma spesso la gente paga decine di dollari, com’è accaduto l’altra sera al «92ndY», un centro culturale di Manhattan, per sentire Brooks parlare del suo libro.
Autore di sostanza? Illusionista? L’unica certezza è che Brooks ha perso entusiasmo per la politica americana e trova i leader di oggi meno interessanti di una dissertazione sull’etica, come lui stesso confessa senza alcuna remora. Brooks, del resto, non è nuovo ai tentativi di usare il suo talento saggistico per sfuggire alla gabbia giornalistica dell’attualità che, evidentemente, gli va stretta. In Bobos in Paradise, pubblicato 15 anni fa, esaminò il Dna di una nuova élite, la «borghesia bohemienne», che aveva fuso la vecchia controcultura dei figli dei fiori con la voracità consumistica degli yuppies. Poi è stata la volta de L’animale sociale, con il quale si è spinto nei campi della psicologia e delle neuroscienze: una sorta di indagine sulla solitudine dell’uomo contemporaneo.
Con quest’ultimo Character Brooks alza l’asticella delle ambizioni: descrive il deterioramento dei valori fondanti della società e il modo nel quale le persone potrebbero, forse, recuperarli, plasmando meglio il proprio carattere. Nel farlo disegna il profilo di dieci personaggi storici, da Eisenhower a Sant’Agostino, che hanno avuto la capacità di comprendere le proprie debolezze e le hanno trasformate, dopo cadute più o meno rovinose, in punti di forza. Un’operazione che può lasciare perplessi. E c’è chi ha reagito con ironia all’insistenza con cui l’autore attribuisce lo smarrimento del codice morale della società a «un pericoloso indebolimento dell’istituzione familiare », visto che proprio adesso Brooks sta divorziando dalla moglie con la quale ha condiviso tre figli e 27 anni di vita.
Ma forse è qui la spiegazione di questo strano libro. L’autore continua a ripetere in ogni presentazione e in ogni conversazione che lui, da giornalista pagato profumatamente per «essere narcisista e per apparire più autorevole e convinto delle mie opinioni di quello che sono in realtà», incarna le distorsioni della società nella quale viviamo. Forse quando dice che ha scritto questo libro per salvarsi l’anima, non recita. Certo, fa sorridere il suo accanimento nel parlare di umiltà. Oltre a fare il giornalistasaggista, Brooks insegna all’università di Yale e il suo corso si chiama proprio «Umiltà». E «Umiltà» doveva anche essere il titolo di questo nuovo saggio. Ma quella di Brooks non è l’umiltà del saio. È quella di un liberale: libertà dalla schiavitù di doversi mostrare ogni volta superiori a tutti i costi. La libertà di stare un passo indietro per osservare, riflettere, riscoprire i valori che contano, anziché farsi travolgere dalla cultura dell’autostima, del «Big Me»: quella che assorbiamo fin da quando siamo in fasce.
Questa è, almeno, l’esperienza americana, che non coincide con quella di Paesi come l’Italia, che la meritocrazia la devono ancora scoprire, mentre negli Usa il problema è quello di curarne gli eccessi. La macchina americana dell’autostima è implacabile: a scuola ti insegnano che tu sei uno speciale. Uno che farà cose straordinarie. A casa i genitori tracciano percorsi che devono portare all’eccellenza accademica. Il bombardamento continua anche la domenica, in chiesa: le frasi che un telepredicatore celebre come Joel Osteen ripete con più frequenza sono «Dio non ti ha creato per farti stare nella media. Tu sei fatto per eccellere, per vivere nella vittoria». E la nuova era digitale esaspera e sistematizza questi fenomeni: viviamo in una cultura che ci insegna a promuovere noi stessi, a trasformarci in brand viventi, ma non ci aiuta a costruire il nostro carattere.
A 53 anni Brooks, il columnist conservatore illuminato con il quale tutti i lettori liberal del «New York Times» vogliono dialogare, l’intellettuale che Barack Obama convoca spesso alla Casa Bianca per privatissimi scambi di opinioni, guarda con distacco al suo successo. E si chiede se, per inseguirlo e alimentare il suo narcisismo, non abbia smesso di curare i valori umani più profondi.
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