L’idea
Fin
da quando ero un bambino che cresceva nella parte bassa di Manhattan mi sono
sentito attratto da storie riguardanti la vecchia New York. Ogni giorno,
esplorando le strade del vicinato, lentamente andavo scoprendo un periodo
straordinario e relativamente poco conosciuto della città e della storia
dell’intero paese. Quegli anni lontani, intorno al 1860, si materializzavano
nelle storie incredibilmente affascinanti di immigrati e lavoratori che
affollavano le strade, di politici corrotti, di un mondo sommerso che lottava
per ottenere il dominio su tutto. Con il passare degli anni queste storie sono
sempre rimaste dentro di me, e io ho continuato a sognare di poterle portare
sul grande schermo. Sono le vicende che hanno messo alla prova l’America,
quelle con cui il paese, allora giovane, ha dovuto fare i conti. Insomma, le
storie delle nostre radici.
Dall’articolo
“L’America di Scorsese nasce nel fango” di Fulvia Caprara,
«La Stampa», 11 gennaio 2002
Abitando
nella parte più bassa dell’East Side, fra Mott Street ed Elizabeth Street,
avevo visto che le case erano molto vecchie e avevo cominciato a leggere le
lapidi che risalivano al 1800-1810; ero affascinato dalla storia del passato. E
ho saputo che a un certo punto la vecchia cattedrale di St. Patrick era stata
difesa dai cattolici nel 1844, se non sbaglio contro i Know-Nothings, che erano
una banda di nativi americani.[Per “nativi” qui e altrove Scorsese intende gli anglosassoni non immigrati, n.d.t.] Mi chiedevo come apparisse la
città a quell’epoca. Così ho fatto delle ricerche, nel corso degli anni. Io e
Jay Cocks cominciammo a mettere insieme un copione nel 1975, e abbiamo
continuato a lavorarci fino al 1993, quando abbiamo deciso di riscrivere tutto
da capo. E adesso stiamo mettendo a punto una storia ambientata proprio in quel
periodo e in quella parte di Manhattan.
Dall’intervento
al «Charlie Rose Show» del 15 ottobre 1999
Lessi
The Gangs of New York per la
prima volta nel gennaio del 1970, il giorno di Capodanno. Lo trovai su uno
scaffale a casa di qualcuno e cominciai a dargli un’occhiata, e poi me ne
procurai una copia. Con il mio amico Jay Cocks parlammo dell’eventualità di
farne un film, e verso la metà degli anni Settanta lui cominciò a scrivere un
copione. Nel 1979 il copione era terminato, e rispecchiava il tipo di film che
si poteva realizzare negli anni Settanta. Era personale, grandioso, caotico. Ma
non riuscimmo a trovare i soldi per farlo.
Dall’intervista
rilasciata a Kevin Baker,
«American Heritage»,
novembre-dicembre 2001
L’atmosfera
era cambiata a quel punto. Erano usciti ET
e Guerre stellari, e nessuno
voleva spendere soldi per costruire un set del genere.
Dall’articolo “Gangsters’ Paradise”
di Alistair Harkness,
«Hot Dog», 6 ottobre 2001
Sono
circa venticinque anni che cerco di fare questo film. Naturalmente la
sceneggiatura ha subito una grande evoluzione, ma la trama è rimasta la stessa.
Tratta della nascita di Manhattan e del modo in cui le
diverse ondate di immigrati hanno dato forma all’evoluzione di New York.
Tutto questo viene mostrato attraverso l’influenza
delle bande nella seconda metà del XIX secolo, per esempio con l’arrivo
degli immigrati irlandesi – cattolici, poveri e analfabeti – e la loro rivalità
nei confronti dei protestanti, già stabilitisi a New York. E dietro a tutto
questo, inoltre, la corruzione politica e religiosa, la violenza e la lotta per
il potere. Come tutti sanno, il potere corrompe e nessuno fa eccezione. Sono
stato affascinato da questo tema fin da Casinò
e da Quei bravi ragazzi. Dall’intervista
rilasciata a Jean-Paul Chaillet in occasione della presentazione di Al
di là della vita in Francia
Se riesco a fare Gangs of New York entro il prossimo anno, avrò realizzato praticamente ogni film che abbia mai voluto fare. La mia è una vita molto fortunata. Non posso proprio lamentarmene. Da un’intervista rilasciata a Rene Rodriguez («Knight Ridder Newspapers»)
La realizzazione
La
sceneggiatura ha richiesto molti rifacimenti successivi [...]. È una storia
ambiziosa, un film ambizioso, e dovevamo intrecciare molti temi diversi: la politica, l’antropologia dell’epoca, la fisionomia reale
di queste bande. Abbastanza verosimilmente, potevano essere davvero accostate
alle bande e alle tribù anglosassoni. In un certo senso si trattava di una
guerra tribale. La cultura dei cattolici irlandesi in qualche modo era anche
una cultura tribale. [...] Mi interessa anche il modo in cui la civilizzazione
fallisce e, quando fallisce, il gruppo di riferimento diventa la tribù, e più
in piccolo il clan, e più in piccolo la famiglia, un’unità nella quale i legami
sono legami di sangue. E a quel punto tutto il resto scompare, come
accadeva in quei bassifondi, per quanto se ne sapeva nel mondo... I Five Points
erano chiamati “il luogo peggiore del mondo”. Perfino Charles Dickens, quando
venne in America, si recò a visitare i Five Points e ne parlò nel suo L’America, dicendo che Londra non era
neppure paragonabile, era il Paradiso in confronto ai Five Points. (Ride.)
Per questo mi affascina ciò che
succede ai gruppi di persone che sono intrappolate in una situazione, oppresse
politicamente ed economicamente, e quale forma di reazione intraprendono. Una banda è davvero una tribù, in un certo senso. E i loro
modelli di comportamento... come ogni cosa venga decisa letteralmente mediante
la violenza, mediante lo scontro fisico. E il combattere diventa parte della
cultura, fa davvero parte della cultura.
Dall’intervento
al «Charlie Rose Show» del 15 ottobre 1999
Abbiamo
utilizzato un certo numero di fotografie di [Jacob] Riis per costruire le
scenografie. Abbiamo anche ricreato Paradise Square, nel cuore del quartiere,
da vecchie incisioni e disegni che rappresentavano i Five Points. Inoltre ci
sono le immagini degli edifici in legno che ricordo dalla mia infanzia a
Elizabeth Street. Uno era un negozio di polli vivi, tra Prince e Spring. Un
altro era una pasticceria.
Lei è cresciuto proprio dove è
ambientata la maggior parte del film. Sì. I Five Points erano più verso il centro della città, ma
si erano espansi. Naturalmente, all’epoca in cui ci abitavo io era diventato un
quartiere italiano, ma la sottocultura era familiare. Le cose importanti,
immediate, per me erano la famiglia, la strada e la chiesa. Dal lato positivo,
c’era un meraviglioso senso della vita in comune, della comunità.
Dall’intervista rilasciata a Kevin
Baker,
«American Heritage»,
novembre/dicembre 2001
Ho deciso di girare questo film a
Cinecittà perché Cinecittà ha sempre avuto per me un sapore speciale; trovo che
sia un posto magico.
Pur essendo il mio un film americanissimo, volevo aggiungervi il tocco di
questa magia tutta italiana.
Dall’articolo “L’America di Scorsese
nasce nel fango” di Fulvia Caprara,
«La Stampa», 11 gennaio 2002
[Sul
set] c’eravamo solo George [Lucas] e io. George si trovava a sinistra della
struttura e ricordo di avere pensato: “Lui è il nuovo e io sono il vecchio”,
perché lui ha detto: “Non costruiranno mai più scenografie del genere, Marty,
nessuno più spenderà tutti questi soldi, è finita per queste cose”. Mi
raccontava del nuovo episodio di Guerre
stellari a cui stava lavorando, di come stava per andare a Caserta,
nell’Italia meridionale [nella reggia di Caserta sono state girate alcune scene
di Guerre stellari - Episodio I,
n.d.t.], che è la patria della
mozzarella... È molto importante, ero invidioso perché volevo andarci anch’io.
Lui fa: “Vieni anche tu, è una gita di un giorno”. E io: “George, devo
cominciare a girare tra quattro settimane, non posso. Mandami un po’ di
mozzarella, cosa vuoi che ti dica?”
Ma lui fa tutto con il blue screen. La sua produzione è tutta
computerizzata. Io ho sette, forse otto inquadrature che utilizzano il blue
screen. Perciò è stato un momento molto interessante, il vecchio e il nuovo, e
non credo che succederà mai più.
Dall’articolo
“Gangsters’ Paradise” di Alistair Harkness,
«Hot Dog», 6 ottobre 2001
Di solito lei guarda vecchi film per motivi di ricerca nel
periodo in cui sta montando un film. Che cosa ha guardato durante Gangs of New York?
Ho
visto un noir di Anthony Mann intitolato Il
grande bersaglio [1951]. Parla di un investigatore dell’agenzia
Pinkerton che viaggia in treno fra New York e Baltimora, diretto a Washington,
nel 1860 o nel 1861, quando Lincoln è appena stato eletto; Lincoln si trova su
un treno e qualcuno vuole tentare di ucciderlo; è una storia vera... [E poi] Il grande paese del 1958, di
William Wyler. Questo film l’ho scelto per il modo in cui viene usato il
paesaggio. E poi contiene una delle più straordinarie scene di combattimento
corpo a corpo mai vista in un film, tra Charlton Heston e Gregory Peck.
Dall’articolo “Wide-Screen Cinemaniac” di Troy Patterson,
«Entertainment Weekly», giugno 2001
La rappresentazione della violenza
Morivo
dalla voglia di fare questo film per tutti questi anni perché
parla soprattutto della storia della città, e di come la storia della città sia
davvero la storia dell’America, mi sembra, particolarmente nel XIX secolo.
Una grossa difficoltà, per me, è che nel film c’è moltissima azione: come si
può trattare la violenza nel cinema al giorno d’oggi? Specialmente dopo aver
realizzato Casinò, in cui, alla
fine del film, Joe Pesci e suo fratello vengono picchiati a morte dai loro
migliori amici? E quando si arriva a fare questo, non so, in un certo senso non
c’è più via d’uscita. È il vicolo cieco del crimine organizzato, il vicolo
cieco di quel tipo di vita, oltre non si può andare. E in questo caso [in Gangs of New York] devo fare molta
attenzione, devo pensare ad altri modi per rappresentare la violenza, anziché
farlo in maniera diretta.
Dall’intervento
al «Charlie Rose Show» del 15 ottobre 1999
Una
volta sicuro che Gangs of New York
sarà avviato, ci sono cose che dovrò affrontare nel copione. La violenza,
soprattutto. La violenza è una questione spinosa, ma era così che si
comportavano quei personaggi. Devo trovare un modo per rappresentarla. Alla
fine, quando tutti sono coperti di polvere e di cenere, deve essere molto
stilizzata. [...]
Non m’interessa più la violenza in
quel senso. Molti di quegli uomini [in Gangs
of New York] non hanno nemmeno armi da fuoco, ma usano bastoni.
Ebbene, l’ho già fatto in Casinò. Non voglio rappresentare di nuovo la violenza
in quel modo. Non riesco nemmeno a guardare quella scena. È sconvolgente,
perché quei personaggi mi piacciono. E per quanto riguarda la testa stretta
nella morsa, avrei dovuto giocare tutto sulle facce di Joe e degli altri
attori, e non mostrare l’occhio che sporge dalla morsa. È qualcosa che ha a che
fare con l’umanità di tutto questo. L’effetto che quella violenza ha sui
torturatori conta quanto l’effetto che ha sul tizio con la testa nella morsa.
Se non si riesce a mostrare l’umanità che c’è dietro la violenza – per
esempio, nella scena di battaglia all’inizio di Gangs of New York – allora bisogna trovare un modo non
descrittivo per rappresentare quella violenza, così da non ottenere un semplice
susseguirsi di scene in cui la gente si spacca la testa a vicenda. Perché è
questo che facevano. Combattere era un passatempo. Quello che bisogna capire di
queste bande è che si ricollegavano direttamente alle
tribù celtiche anglosassoni e irlandesi. Il fatto che un gruppo sia
protestante e l’altro cattolico è solo una questione geografica. Non sono i
princìpi della religione a essere in discussione. Sto
cercando di fare un film che parla di barbari. Se fossi più giovane,
senza dubbio cercherei di scioccare. Qui non desidero più raffigurare sempre la
violenza in un modo tale da perdere metà del pubblico a metà del film.
Dall’articolo “The Man Who Forgets Nothing” di Mark
Singer,
«The New Yorker», 27 marzo 2000
C’è
una scena, durante le sommosse per l’arruolamento, di uno scontro con le
truppe. La folla rimane immobile per un secondo, senza rendersi conto di quello
che sta per succedere: “Non ci spareranno davvero!” E invece succede. I soldati
sparano addosso alla gente. E non so se a quel punto si possa davvero provare
simpatia per quelle persone, dopo averle viste linciare degli afroamericani.
Ma, ancora una volta, la sofferenza che provano è tutta umana. Anche i soldati
soffrono. Ed è questo che devo trovare il modo di trattare, dal punto di vista
estetico.
La sfida consiste nel mostrare le
sommosse per l’arruolamento, le condizioni economiche, le condizioni politiche,
ma come sfondo di una storia personale.
Dall’intervista
rilasciata a Kevin Baker,
«American Heritage»,
novembre/dicembre 2001
Dopo l’11 settembre
Di
fatto, la questione al centro del film è: chi è americano? Chi ha il diritto di
stare in questo paese? Sto uscendo proprio adesso dalla saletta di montaggio e
a questo punto, devo dirlo, guardo il film e mi sembra tutto diverso. Ciò non
significa che verrà rimontato in modo da adattarsi al clima politico. Dico solo
che devo proprio considerarlo attentamente perché alcune parti sono molto dure.
E non solo la violenza. Intendo il modo di pensare, e l’utilizzo di insulti
razziali.
Dall’articolo “Gangsters’ Paradise”
di Alistair Harkness,
«Hot Dog», 6 ottobre 2001
Lavorare
insieme a Gangs of New York è
stato un grande piacere per entrambi e siamo impazienti di condividere questo
piacere con il pubblico.
La nostra decisione di rinviare la
distribuzione del film è legata alla sua ambientazione nei bassifondi di
Manhattan nel periodo della Guerra Civile, durante le sommosse per
l’arruolamento militare che si verificarono negli anni Sessanta del secolo XIX
– uno dei periodi più difficili e problematici della storia americana. Alla
luce degli eventi attuali e della rapidità con cui essi si susseguono, abbiamo
scelto di eccedere piuttosto in sensibilità e di rinviare la grande
distribuzione del film al 2002.
Dichiarazione
congiunta di Martin Scorsese e Harvey Weinstein
(presidente della Miramax Films), 7 ottobre 2001
Spero
che questo film mostri che le cose che abbiamo avuto fin dalla nascita, il
mondo intorno a noi, non sono andate al loro posto così, semplicemente. Che
questa idea di nazione, questa idea di uguaglianza tra razze, colori, credi
religiosi, il senso di indipendenza, questa separazione tra stato e chiesa, è
stata frutto di una lotta molto reale. [...]
A nostro avviso il film parla di
quello che significa mettere insieme un paese basato sui nostri princìpi, i
princìpi dei Padri Fondatori. Ciò che Adams chiamava “questo grande
esperimento”. E parla di come la gente possa avere un’idea assolutamente
sbagliata e pensare di avere assolutamente ragione. Voglio dire, avere un’idea
assolutamente sbagliata di cosa dovrebbe essere questa nazione. Bill il
Macellaio guarda gli immigrati irlandesi che sbarcano e li insulta, e i suoi
nativi tirano pietre. Perché loro si considerano i veri americani. È a questo
che si riconduce tutto.
Tratto
dall’intervista rilasciata a Kevin Baker,
«American Heritage», novembre-dicembre 2001
Questo
mi ha fatto pensare a quanto la prima ondata di immigrazione sia stata un vero
e proprio test su quello che l’America dovrebbe essere. [Il motto sulla Statua
della Libertà recita:] “Dateci i vostri senzatetto e i vostri poveri”.
Bisognava aprire l’America a tutti quelli che venivano da tutto il mondo, o
solo a chi era lì [per primo]? In gran parte, la risposta è stata elaborata nelle
strade di Manhattan.
Dall’articolo “Ready, Set, Rewind”
di Rachel Abramowitz,
«Los Angeles Times», 20 gennaio 2002
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