Il nuovo thriller del padre del cyberpunk esplora il futuro contemporaneo tra nuovi media e merci feticcio
Avrete notato nelle vetrine la moda militare, con l'Aviazione e reparti della Marina e dell'Esercito a sponsorizzare capi di vestiario, caschi, orologi con i fregi e gli stili della loro storia gloriosa. Da una generazione è finita la leva obbligatoria, che portava le reclute a disfarsi appena possibile della divisa, e il look da combattenti va, anche tra chi non distingue un howitzer da un bazooka. A individuare le tendenze sono scout che i designer mandano in giro per le città, nelle discoteche, alle stazioni della metropolitana, nelle scuole, nei supermarket, a caccia di nuovi stili spontanei, da commercializzare. I ragazzi neri dei ghetti urbani di New York, arrestati ai tempi della Tolleranza 0 del sindaco Giuliani, si vedevano sottrarre la cinta all'ingresso del carcere di Rikers Island, e rimessi in libertà sfoggiavano ribelli i pantaloni abbassati sui fianchi con l'elastico dei boxer in vista. Portata dai rapper ovunque, la moda contagia milioni di innocui primi della classe, finché non interviene lo stesso presidente Obama: «Fratelli, tiratevi su i pantaloni!».
Lo scrittore William Gibson lavora sulla campagna di moda militare, emersa dalle strade dopo l'attacco di al Qaeda a New York l'11 settembre 2001, nel nuovo romanzo Zero History (2010), appena tradotto dall'editore Fanucci. E' l'ultimo capitolo della trilogia aperta da L'accademia dei sogni (2003) e Guerreros (2007) tradotti da Mondadori, e battezzati dai fan dello scrittore nato negli Stati Uniti ma emigrato in Canada per evitare proprio la leva ai tempi della guerra in Vietnam, «Ciclo di Bigend».
Hubertus Bigend, stressato manager della Blue Ant, si è accorto, con sorpresa, che le forze armate americane non sanno più dettare legge nella moda, «dopo aver inventato così tanto fascino maschile contemporaneo, si son trovate a competere con il loro frutto storico, riprodotto come moda casual» osserva Gibson, forse con sottile sarcasmo per quell'U.S. Army che lo costrinse all'esilio.
Il lettore non deve affrontare l'intero opus per orientarsi in Zero History, ma come sanno i fedeli dello scrittore che in Neuromante (1984) ha coniato il termine cyberspazio - la galassia di fatti ed emozioni virtuali o reali del Web - prima ancora che i tecnologi lo creassero davvero, in Gibson nulla accade per caso e ogni personaggio e dettaglio ritorna ossessivo. La trama è, come sempre, stringata, più sceneggiatura che romanzo. Bigend, paranoico che il brand Blue Ant si possa perdere spiazzato dalle novità di strada, anima questo terzo lavoro di Gibson arruolando di nuovo Hollis Henry, ex cantante della band Curfew. Malmostosa come la geniale hacker Lisbeth Salander in Uomini che odiano le donne del giallista Larsson, Hollis cerca l'ambiguo designer Gabriel Hounds, il solo capace di creare moda e gusto con fiuto segreto. Fa dei jeans da 20 once, o almeno si dice che li faccia, ma non potete mica entrare in un negozio, provarli e tirare fuori la carta di credito, un paio di Hounds affiorano magari in un negozio vintage, di seconda mano, o da un'asta di e-bay, da un annuncio su Google. Henry deve trovare Gabriel Hounds (in inglese «hound» richiama The Hound of Baskerville, il mastino di Baskerville, celebre impresa di Sherlock Holmes), con l'aiuto di Milgrim, uno slavista ex tossico. Una mano la daranno, a modo loro, Heidi Hyde, già batterista dei Curfew e quel matto di Garreth, che Henry sogna ma che si concentra invece sulla logistica.
Mentre Gibson lavora a Zero History si andava affermando il social network twitter, messaggi brevi di 140 battute capaci di contenere link, rinvii, ad articoli, libri, intere biblioteche. In un colloquio con la rivista Wired, Gibson confessa di non essere mai stato attratto dalla megacomunità di Facebook, ma di subire il fascino twitter, per la capacità di aggregare contenuti e diffondere innovazione: quando scegliete bene le persone da seguire su twitter - conclude Gibson - la vostra giornata si riempie di spunti, suggerimenti, idee, ipotesi.
Nel romanzo l'opportunità diventa maledizione. I protagonisti drogati da «information overload», pressione eccessiva dell'informazione griffata, aprono e chiudono i computer Mac Air, seguono il furgone Slow Food, giudicano un tipo dalla sciarpa Hermes, conservano i vecchi computer obsoleti come Voytek «per amore», snobbano le Subaru, citano le icone Orwell e James Bond: perfino l'informatica Cory Doctorow è arruolata per disegnare uno speciale telefono cellulare. Intorno a loro si snoda la trama nascosta e feroce dietro i presunti jeans Hounds, terrore, politica, violenza, business. Ma i personaggi aridi dell'apologo di Gibson sanno vedere solo una Storia ridotta a Zero, come a Ground Zero, spazio cyber dove un bacio fugace, miraggio di umanità, non scaldano il cuore.
Wired citerà gli scrittori Pynchon e DeLillo come genealogia di Zero History, ma Gibson non segue né stile né preoccupazioni letterarie dei colleghi. Mentre i nostri letterati - dimentichi che proprio noi italiani con Calvino e Balestrini intravedemmo mezzo secolo fa il fascino del computer autore di poesie e romanzi - deprecano twitter, e i temi di maturità lanciano contro la tecnologia gli Ultimi Anatemi della Scuola di Francoforte, l'high tech è già terreno mitologico di narrazione, come la piana di Troia, la Spagna di Don Chisciotte, la Russia del Maestro e Margherita. Gibson, amaro esule d'America, ne tesse la cronaca, senza illusioni, senza rimpianti.
Autore: William Gibson
Titolo: Zero HIstory
Edizioni: Fanucci
Pagine: 560
Prezzo: 12,90 euro
Lo scrittore William Gibson lavora sulla campagna di moda militare, emersa dalle strade dopo l'attacco di al Qaeda a New York l'11 settembre 2001, nel nuovo romanzo Zero History (2010), appena tradotto dall'editore Fanucci. E' l'ultimo capitolo della trilogia aperta da L'accademia dei sogni (2003) e Guerreros (2007) tradotti da Mondadori, e battezzati dai fan dello scrittore nato negli Stati Uniti ma emigrato in Canada per evitare proprio la leva ai tempi della guerra in Vietnam, «Ciclo di Bigend».
Hubertus Bigend, stressato manager della Blue Ant, si è accorto, con sorpresa, che le forze armate americane non sanno più dettare legge nella moda, «dopo aver inventato così tanto fascino maschile contemporaneo, si son trovate a competere con il loro frutto storico, riprodotto come moda casual» osserva Gibson, forse con sottile sarcasmo per quell'U.S. Army che lo costrinse all'esilio.
Il lettore non deve affrontare l'intero opus per orientarsi in Zero History, ma come sanno i fedeli dello scrittore che in Neuromante (1984) ha coniato il termine cyberspazio - la galassia di fatti ed emozioni virtuali o reali del Web - prima ancora che i tecnologi lo creassero davvero, in Gibson nulla accade per caso e ogni personaggio e dettaglio ritorna ossessivo. La trama è, come sempre, stringata, più sceneggiatura che romanzo. Bigend, paranoico che il brand Blue Ant si possa perdere spiazzato dalle novità di strada, anima questo terzo lavoro di Gibson arruolando di nuovo Hollis Henry, ex cantante della band Curfew. Malmostosa come la geniale hacker Lisbeth Salander in Uomini che odiano le donne del giallista Larsson, Hollis cerca l'ambiguo designer Gabriel Hounds, il solo capace di creare moda e gusto con fiuto segreto. Fa dei jeans da 20 once, o almeno si dice che li faccia, ma non potete mica entrare in un negozio, provarli e tirare fuori la carta di credito, un paio di Hounds affiorano magari in un negozio vintage, di seconda mano, o da un'asta di e-bay, da un annuncio su Google. Henry deve trovare Gabriel Hounds (in inglese «hound» richiama The Hound of Baskerville, il mastino di Baskerville, celebre impresa di Sherlock Holmes), con l'aiuto di Milgrim, uno slavista ex tossico. Una mano la daranno, a modo loro, Heidi Hyde, già batterista dei Curfew e quel matto di Garreth, che Henry sogna ma che si concentra invece sulla logistica.
Mentre Gibson lavora a Zero History si andava affermando il social network twitter, messaggi brevi di 140 battute capaci di contenere link, rinvii, ad articoli, libri, intere biblioteche. In un colloquio con la rivista Wired, Gibson confessa di non essere mai stato attratto dalla megacomunità di Facebook, ma di subire il fascino twitter, per la capacità di aggregare contenuti e diffondere innovazione: quando scegliete bene le persone da seguire su twitter - conclude Gibson - la vostra giornata si riempie di spunti, suggerimenti, idee, ipotesi.
Nel romanzo l'opportunità diventa maledizione. I protagonisti drogati da «information overload», pressione eccessiva dell'informazione griffata, aprono e chiudono i computer Mac Air, seguono il furgone Slow Food, giudicano un tipo dalla sciarpa Hermes, conservano i vecchi computer obsoleti come Voytek «per amore», snobbano le Subaru, citano le icone Orwell e James Bond: perfino l'informatica Cory Doctorow è arruolata per disegnare uno speciale telefono cellulare. Intorno a loro si snoda la trama nascosta e feroce dietro i presunti jeans Hounds, terrore, politica, violenza, business. Ma i personaggi aridi dell'apologo di Gibson sanno vedere solo una Storia ridotta a Zero, come a Ground Zero, spazio cyber dove un bacio fugace, miraggio di umanità, non scaldano il cuore.
Wired citerà gli scrittori Pynchon e DeLillo come genealogia di Zero History, ma Gibson non segue né stile né preoccupazioni letterarie dei colleghi. Mentre i nostri letterati - dimentichi che proprio noi italiani con Calvino e Balestrini intravedemmo mezzo secolo fa il fascino del computer autore di poesie e romanzi - deprecano twitter, e i temi di maturità lanciano contro la tecnologia gli Ultimi Anatemi della Scuola di Francoforte, l'high tech è già terreno mitologico di narrazione, come la piana di Troia, la Spagna di Don Chisciotte, la Russia del Maestro e Margherita. Gibson, amaro esule d'America, ne tesse la cronaca, senza illusioni, senza rimpianti.
Autore: William Gibson
Titolo: Zero HIstory
Edizioni: Fanucci
Pagine: 560
Prezzo: 12,90 euro
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