La morte di uno dei più significativi storici della classe operaia Usa. Da meccanico in fabbrica alla prestigiosa cattedra di Yale, fino ai documentati contributi sul movimento statunitense di Occupy.
David Montgomery è stato il più importante storico del lavoro statunitense (e probabilmente del mondo) dell'ultimo mezzo secolo. Una figura nella quale si combinavano in maniera unica, in modo sobrio e generoso, senza snobismi o narcisismi, lo studioso, il militante, l'intellettuale pubblico. Montgomery è mancato improvvisamente, per un'emorragia cerebrale, in un'area della Pennsylvania non lontano da dove era nato, esattamente 84 anni fa, nel 1927.
Una famiglia relativamente prospera, la sua, il padre dirigente assicurativo che garantisce ai tre figli una vita più che decorosa anche in piena Grande depressione, uno zio ricco che gli consente di studiare in un liceo privato e poi il college a Swarthmore, interrotto dal servizio militare e ripreso nella seconda metà degli anni Quaranta, mentre scoppia la guerra fredda. Da sempre interessato alla politica, maturato in fretta grazie ai lavori saltuari stagionali condotti nelle fattorie nelle campagne della Pennsylvania, a fine anni Quaranta Montgomery è attratto dal movimento federalista, dal piccolo Partito Socialista statunitense di Norman Thomas e dall'«International Union of Students», l'organizzazione internazionale studentesca di sinistra. Quest'ultima lo porta in Europa, a un congresso mondiale della gioventù a Praga. Sulla nave per il Vecchio mondo conosce la futura moglie, l'afroamericana Martel Wilcher, proveniente da una famiglia comunista di Chicago, che sposerà nel 1952. A quel punto ha abbandonato il progetto di un dottorato in scienze politiche per il lavoro di fabbrica e la militanza sindacale. Farà il meccanico per un decennio, dapprima nello stato di New York, poi in Minnesota, lottando nel sindacato comunista della «United Electrical Workers». Con il risultato (siamo in pieno maccartismo) di finire in lista nera. Sono infatti anni di enormi difficoltà per il mondo del lavoro d'oltre Atlantico, spaccato dalla pregiudiziale anticomunista che rinforza l'inveterata frattura bianchi-neri.
Dalla fabbrica alla cattedraLasciato il partito comunista nel 1957, a seguito dei fatti di Ungheria, ma ancora regolarmente perseguitato, per la sua attività sindacale, dalle «liste nere», Montgomery si ritrova a lavorare, per vivere, in una piccolissima fabbrica e sconta così un inevitabile, pesante isolamento personale. Questa condizione, sommata all'insaziabile bisogno di capire per provare a cambiare, nonostante tutto, radicalmente le cose, lo spinge a riprendere gli studi. Si fa trasferire al turno di notte per seguire i corsi all'Università del Minnesota. Dove si addottora con una tesi che diventerà libro nel 1967 con il titolo di Beyond Equality. È un contributo pionieristico, nato tra gli scaffali di biblioteca sui quali Montgomery scopre casualmente una serie di pamphlet della campagna elettorale del 1872 dove si accenna alla fatidica lotta per le otto ore lavorative, la stessa attorno alla quale, nemmeno quindici anni dopo, scoppieranno i fatti di Chicago che portano all'impiccagione degli anarchici e al Primo maggio. Scatta improvvisamente in lui quell'idea di vedere «l'impatto dei lavoratori americani sulle principali correnti della vita politica statunitense» che, come ricorderà molti anni dopo, «è sempre stato da allora il mio interesse principale», l'interesse di uno scienziato politico diventato storico per meglio capire il mondo che lo circonda. Beyond Equality riguarda il complesso rapporto tra i lavoratori e il partito repubblicano negli anni a cavallo della Guerra civile; le promesse del secondo di garantire «lavoro libero» e benessere a tutti, una volta debellata la schiavitù; le richieste dei primi, o comunque di una parte consistente di loro, di gettare sul piatto questioni di giustizia economica e sociale che, come suggeriva il titolo, andavano al di là dell'eguaglianza politica formale di fronte alle legge e sfidavano così gli equilibri politici esistenti.
Tra i portuali del PacificoLe ultime mail che ci siamo scambiati riguardavano proprio questo bellissimo libro e una sua non meno bella conferenza, tenuta a Oxford nel 1987, testi ai quali contavo di ricorrere per preparare un breve intervento al Festivalstoria organizzato da Angelo D'Orsi sul tema della «Ricostruzione post-Guerra civile». Gli chiedevo anche consigli su cose più recenti, ricevendone al solito una bibliografia mostruosa. Ma non meno informate erano le notazioni sui movimenti di Occupy, da Wall Street a Boston, appena scoppiati al di là dell'Atlantico. In pochi, rapidi tratti Montgomery disegnava un quadro completo di quello che stava accadendo vicino a casa sua, a Filadelfia, ma anche fra i portuali del Pacifico, i lavoratori degli alberghi sempre della costa occidentale, i telefonisti di New York.
Lo stesso intreccio di preziose notizie e analisi distese fra passato e presente ritrovo nelle prime lettere che ci siamo scambiati. Risalgono esattamente a trentasette anni fa, mentre ero borsista «American Council of Learned Societies» alla Wayne State University di Detroit e lui era professore a Pittsburgh. Gli scrissi nel novembre 1974, dietro l'incoraggiamento di Tatsuro Nomura, un professore giapponese che sapeva tutto dell'«Industrial Workers of the World» su cui scrivevo la tesi e che perciò mi faceva da tutor, chiedendogli copia di un suo saggio inedito del 1969 su «Pratiche sindacali e le origini della teoria sindacalista» del quale si dicevano meraviglie fra gli addetti ai lavori. Me lo inviò e ci aggiunse pure un altro paper, più recente, su «Lavoratori immigrati e scientific management». Erano gli embrioni di una raccolta di saggi che sarebbe uscita negli Stati Uniti nel 1979 con il titolo di Workers' Control (Cambridge) e da noi poco più di un anno dopo con quello di Rapporti di classe nell'America del primo 900 (Rosenberg, 1980) per la meritoria cura dei compianti Elisabetta Benenati Marconi e Vittorio Foa.
Lo sguardo si spostava adesso decisamente sul sistema produttivo, lungo un percorso che sarebbe culminato, nel 1987, nelle quasi cinquecento pagine di The Fall of the House of Labor (Cambridge). Nel frattempo Montgomery era passato da Pittsburgh a una prestigiosa cattedra a Yale. Ma non aveva cambiato convinzioni, né stile di vita. Tanto che quando, poco dopo il suo arrivo, scoppiò uno sciopero del personale non docente dell'Università, quest'ultimo ebbe la piena solidarietà dell'illustre «cattedratico», fra la sorpresa del resto del corpo docente.
Nella rete della conoscenzaL'affresco di Fall partiva dalla fine della Guerra civile per una perlustrazione a tappeto dei tentativi degli attivisti del mondo del lavoro statunitensi di sviluppare «progetti di azione concertata di classe» lungo il sessantennio compreso tra il crollo della schiavitù e l'approvazione delle leggi che, a metà degli «anni ruggenti», all'ombra del Ku Klux Klan, chiudevano le grandi ondate migratorie, sbarravano le porte agli asiatici e aprivano una stagione di controlli e discriminazioni pesanti alle frontiere meridionali.
Montgomery conduceva un'operazione alla Edward P. Thompson, studioso col quale aveva lavorato in Inghilterra, nel 1968-69, in cerca del «rifarsi» della classe operaia, a cavallo della seconda rivoluzione industriale. Ma con tre differenze di fondo, frutto del suo peculiare patrimonio di esperienze personali e delle sensibilità maturate nel quarto di secolo trascorso dall'uscita di Making of the English Working-Class. La prima era la consapevolezza, manifestata a chiare lettere all'apertura del libro, che «scrivere sulla classe operaia è discutere di molti individui disparati». La seconda era il tentativo di ancorare saldamente attorno al luogo di produzione, come laboratorio di adattamento ma anche di irriducibile conflitto, un magma analitico e narrativo che minacciava a ogni piè sospinto, come già era in parte accaduto allo stesso grande Thompson, di sfuggirgli di mano. La terza era una conoscenza senza eguali, perché fondata anche su un decennio di lavoro come attrezzista nell'elettromeccanica, del sistema produttivo del quale lo studioso parlava.
Su una mappa che dagli Stati Uniti si allargava ai paesi d'origine dei migranti e a quella parte meridionale dell'emisfero occidentale che costituiva un irrinunciabile polmone, di materie prime e di mercati, della locomotiva Usa, Montgomery stendeva una densa ragnatela conoscitiva. Vi restavano impigliate le storie di come le mille «singolarità qualunque» del corpo operaio, con il loro bagaglio di appartenenze familiari, etniche, razziali e culturali le più diverse, avevano provato a costruire e ricostruire, tra innumerevoli resistenze esterne e divisioni al loro interno, sullo sfondo di epocali trasformazioni nel modo di produrre e di consumare e di non meno epocali lotte e sconfitte, una qualche forma consapevole di identità di classe, dentro e fuori della fabbrica.
Le carriole umaneDalla dimensione produttiva locale il quadrante si allargava gradualmente al contesto comunitario più ampio, ai non organizzati, al lavoro stagionale, toccando le componenti più svariate del macrosistema sociale e politico e gli snodi della storia come la Prima guerra mondiale. Rileggere gli straordinari capitoli nei quali Montgomery passava in rassegna, uno dopo l'altro, l'operaio qualificato, il manovale, l'addetto macchina, ne scomponeva i profili di razza e di genere, li inseguiva giorno dopo giorno nelle peculiari forme di resistenza e adattamento al lavoro, nella sociabilità al di fuori della fabbrica, al momento di depositare una scheda elettorale, di fondare o sciogliere una sezione sindacale, ne restituiva le complesse interazioni col taylor-fordismo, li vedeva dividersi e ricomporsi in uno sciopero, testimonia di un'insuperabile capacità di studiare e far studiare che Montgomery dispiegava nella sua bottega artigiana. In Fall infatti si sentivano i tentativi di rispondere a chi lo aveva accusato di concentrarsi troppo sui codici morali degli operai qualificati, dimenticando manovali e addetti macchina. Tentativi nei quali Montgomery recuperava e sviluppava il lavoro condotto sotto la sua guida da tanti allievi (ne addottorò oltre una cinquantina, con quasi 4/5 delle tesi trasformatesi in libro!) come l'italiano Andrea Graziosi sulle «carriole umane», cioè i manovali, come Teri Hunter o Julie Saville sui lavoratori forzati o le donne nere nella Ricostruzione, Gunther Peck e Jim Barrett sui migranti italiani, irlandesi e polacchi, Cecele Bucki su operai e sistema politico nell'età del New Deal. E vi aggiungeva la sua formidabile conoscenza comparata di esempi provenienti da tutto il mondo, frutto di letture in almeno tre lingue, caso rarissimo per uno studioso statunitense della sua generazione.
Riaprire oggi quelle pagine, così come quelle degli ultimi saggi su classe operaia e imperialismo a cavallo fra Otto e Novecento, è un esercizio indispensabile per quanti ancora credono che senza studiare il lavoro e le sue peripezie nel corso del tempo poco si capisce di quello che ci ha preceduto e di quello che ci circonda.
Dalla fabbrica alla cattedraLasciato il partito comunista nel 1957, a seguito dei fatti di Ungheria, ma ancora regolarmente perseguitato, per la sua attività sindacale, dalle «liste nere», Montgomery si ritrova a lavorare, per vivere, in una piccolissima fabbrica e sconta così un inevitabile, pesante isolamento personale. Questa condizione, sommata all'insaziabile bisogno di capire per provare a cambiare, nonostante tutto, radicalmente le cose, lo spinge a riprendere gli studi. Si fa trasferire al turno di notte per seguire i corsi all'Università del Minnesota. Dove si addottora con una tesi che diventerà libro nel 1967 con il titolo di Beyond Equality. È un contributo pionieristico, nato tra gli scaffali di biblioteca sui quali Montgomery scopre casualmente una serie di pamphlet della campagna elettorale del 1872 dove si accenna alla fatidica lotta per le otto ore lavorative, la stessa attorno alla quale, nemmeno quindici anni dopo, scoppieranno i fatti di Chicago che portano all'impiccagione degli anarchici e al Primo maggio. Scatta improvvisamente in lui quell'idea di vedere «l'impatto dei lavoratori americani sulle principali correnti della vita politica statunitense» che, come ricorderà molti anni dopo, «è sempre stato da allora il mio interesse principale», l'interesse di uno scienziato politico diventato storico per meglio capire il mondo che lo circonda. Beyond Equality riguarda il complesso rapporto tra i lavoratori e il partito repubblicano negli anni a cavallo della Guerra civile; le promesse del secondo di garantire «lavoro libero» e benessere a tutti, una volta debellata la schiavitù; le richieste dei primi, o comunque di una parte consistente di loro, di gettare sul piatto questioni di giustizia economica e sociale che, come suggeriva il titolo, andavano al di là dell'eguaglianza politica formale di fronte alle legge e sfidavano così gli equilibri politici esistenti.
Tra i portuali del PacificoLe ultime mail che ci siamo scambiati riguardavano proprio questo bellissimo libro e una sua non meno bella conferenza, tenuta a Oxford nel 1987, testi ai quali contavo di ricorrere per preparare un breve intervento al Festivalstoria organizzato da Angelo D'Orsi sul tema della «Ricostruzione post-Guerra civile». Gli chiedevo anche consigli su cose più recenti, ricevendone al solito una bibliografia mostruosa. Ma non meno informate erano le notazioni sui movimenti di Occupy, da Wall Street a Boston, appena scoppiati al di là dell'Atlantico. In pochi, rapidi tratti Montgomery disegnava un quadro completo di quello che stava accadendo vicino a casa sua, a Filadelfia, ma anche fra i portuali del Pacifico, i lavoratori degli alberghi sempre della costa occidentale, i telefonisti di New York.
Lo stesso intreccio di preziose notizie e analisi distese fra passato e presente ritrovo nelle prime lettere che ci siamo scambiati. Risalgono esattamente a trentasette anni fa, mentre ero borsista «American Council of Learned Societies» alla Wayne State University di Detroit e lui era professore a Pittsburgh. Gli scrissi nel novembre 1974, dietro l'incoraggiamento di Tatsuro Nomura, un professore giapponese che sapeva tutto dell'«Industrial Workers of the World» su cui scrivevo la tesi e che perciò mi faceva da tutor, chiedendogli copia di un suo saggio inedito del 1969 su «Pratiche sindacali e le origini della teoria sindacalista» del quale si dicevano meraviglie fra gli addetti ai lavori. Me lo inviò e ci aggiunse pure un altro paper, più recente, su «Lavoratori immigrati e scientific management». Erano gli embrioni di una raccolta di saggi che sarebbe uscita negli Stati Uniti nel 1979 con il titolo di Workers' Control (Cambridge) e da noi poco più di un anno dopo con quello di Rapporti di classe nell'America del primo 900 (Rosenberg, 1980) per la meritoria cura dei compianti Elisabetta Benenati Marconi e Vittorio Foa.
Lo sguardo si spostava adesso decisamente sul sistema produttivo, lungo un percorso che sarebbe culminato, nel 1987, nelle quasi cinquecento pagine di The Fall of the House of Labor (Cambridge). Nel frattempo Montgomery era passato da Pittsburgh a una prestigiosa cattedra a Yale. Ma non aveva cambiato convinzioni, né stile di vita. Tanto che quando, poco dopo il suo arrivo, scoppiò uno sciopero del personale non docente dell'Università, quest'ultimo ebbe la piena solidarietà dell'illustre «cattedratico», fra la sorpresa del resto del corpo docente.
Nella rete della conoscenzaL'affresco di Fall partiva dalla fine della Guerra civile per una perlustrazione a tappeto dei tentativi degli attivisti del mondo del lavoro statunitensi di sviluppare «progetti di azione concertata di classe» lungo il sessantennio compreso tra il crollo della schiavitù e l'approvazione delle leggi che, a metà degli «anni ruggenti», all'ombra del Ku Klux Klan, chiudevano le grandi ondate migratorie, sbarravano le porte agli asiatici e aprivano una stagione di controlli e discriminazioni pesanti alle frontiere meridionali.
Montgomery conduceva un'operazione alla Edward P. Thompson, studioso col quale aveva lavorato in Inghilterra, nel 1968-69, in cerca del «rifarsi» della classe operaia, a cavallo della seconda rivoluzione industriale. Ma con tre differenze di fondo, frutto del suo peculiare patrimonio di esperienze personali e delle sensibilità maturate nel quarto di secolo trascorso dall'uscita di Making of the English Working-Class. La prima era la consapevolezza, manifestata a chiare lettere all'apertura del libro, che «scrivere sulla classe operaia è discutere di molti individui disparati». La seconda era il tentativo di ancorare saldamente attorno al luogo di produzione, come laboratorio di adattamento ma anche di irriducibile conflitto, un magma analitico e narrativo che minacciava a ogni piè sospinto, come già era in parte accaduto allo stesso grande Thompson, di sfuggirgli di mano. La terza era una conoscenza senza eguali, perché fondata anche su un decennio di lavoro come attrezzista nell'elettromeccanica, del sistema produttivo del quale lo studioso parlava.
Su una mappa che dagli Stati Uniti si allargava ai paesi d'origine dei migranti e a quella parte meridionale dell'emisfero occidentale che costituiva un irrinunciabile polmone, di materie prime e di mercati, della locomotiva Usa, Montgomery stendeva una densa ragnatela conoscitiva. Vi restavano impigliate le storie di come le mille «singolarità qualunque» del corpo operaio, con il loro bagaglio di appartenenze familiari, etniche, razziali e culturali le più diverse, avevano provato a costruire e ricostruire, tra innumerevoli resistenze esterne e divisioni al loro interno, sullo sfondo di epocali trasformazioni nel modo di produrre e di consumare e di non meno epocali lotte e sconfitte, una qualche forma consapevole di identità di classe, dentro e fuori della fabbrica.
Le carriole umaneDalla dimensione produttiva locale il quadrante si allargava gradualmente al contesto comunitario più ampio, ai non organizzati, al lavoro stagionale, toccando le componenti più svariate del macrosistema sociale e politico e gli snodi della storia come la Prima guerra mondiale. Rileggere gli straordinari capitoli nei quali Montgomery passava in rassegna, uno dopo l'altro, l'operaio qualificato, il manovale, l'addetto macchina, ne scomponeva i profili di razza e di genere, li inseguiva giorno dopo giorno nelle peculiari forme di resistenza e adattamento al lavoro, nella sociabilità al di fuori della fabbrica, al momento di depositare una scheda elettorale, di fondare o sciogliere una sezione sindacale, ne restituiva le complesse interazioni col taylor-fordismo, li vedeva dividersi e ricomporsi in uno sciopero, testimonia di un'insuperabile capacità di studiare e far studiare che Montgomery dispiegava nella sua bottega artigiana. In Fall infatti si sentivano i tentativi di rispondere a chi lo aveva accusato di concentrarsi troppo sui codici morali degli operai qualificati, dimenticando manovali e addetti macchina. Tentativi nei quali Montgomery recuperava e sviluppava il lavoro condotto sotto la sua guida da tanti allievi (ne addottorò oltre una cinquantina, con quasi 4/5 delle tesi trasformatesi in libro!) come l'italiano Andrea Graziosi sulle «carriole umane», cioè i manovali, come Teri Hunter o Julie Saville sui lavoratori forzati o le donne nere nella Ricostruzione, Gunther Peck e Jim Barrett sui migranti italiani, irlandesi e polacchi, Cecele Bucki su operai e sistema politico nell'età del New Deal. E vi aggiungeva la sua formidabile conoscenza comparata di esempi provenienti da tutto il mondo, frutto di letture in almeno tre lingue, caso rarissimo per uno studioso statunitense della sua generazione.
Riaprire oggi quelle pagine, così come quelle degli ultimi saggi su classe operaia e imperialismo a cavallo fra Otto e Novecento, è un esercizio indispensabile per quanti ancora credono che senza studiare il lavoro e le sue peripezie nel corso del tempo poco si capisce di quello che ci ha preceduto e di quello che ci circonda.
Nessun commento:
Posta un commento