Il catastrofico fallimento del vecchio continente incombe minaccioso sulla labile psiche degli Usa, abituati a guardare all'Europa come a una terra di shopping, musei e vacanze edoniste.
Nella celebre mappa disegnata da Saul Steinberg per il New Yorker per rappresentare le vedute Manhattan-centriche del newyorchese medio, oltre la 9a e 10a avenue si intravede l'Hudson, una strisciolina di New Jersey, una specie di aia brulla (gli Usa) prima dell' Oceano Pacifico e un'Asia appena delineata all'orizzonte. Da allora la mappa ha avuto innumerovoli imitazioni, adattate di volta in volta a diversi provincialismi. Una recente versione, più in linea con l'attuale geopolitica, mostra il mondo visto da Pechino con l'America giusto oltre l'oceano, un piccolo isolotto indebitato su cui è piantata una sgangherata statua della libertà e dopo l'Atlantico un continente produttore di alta moda utile all'acquisto di generi di lusso. Nell'attuale topografia dell'immaginario l'Europa vista dall'America, una terra di shopping, musei e vacanze edoniste, assomiglia sempre di più allo sfondo per un disaster movie, in cui si sta consumando un cataclisma economico fruibile come mistero sacro o dramma morale.
Simon Crichtley, in un articolo del New York Times (Euro Blind. The Crisis As Greek Tragedy), vede l'attuale collasso europeo in chiave di tragedia greca, sottolineando la corresponsabilità che nell'antica forma drammatica i protagonisti hanno nella propria sventura. Più avezzi alle geremiadi puritane che alle tragedie classiche, gli americani, che pure non hanno molto da ridere, hanno una tendenza naturale ad ascrivere le sventure alle deficenze etiche delle vittime stesse. Una fetta sostanziale di opinione pubblica è quindi ancora più propensa a incolpare gli «irresponsabili acquirenti di case troppo care» più che l'avidità degli architetti dell'infrastruttura dei mutui subprime implosa nel 2008. Un sentimento accentuato, paradossalmente, proprio dall'aver assistito impotenti al trasferimento di trilioni di dollari di fondi pubblici alle stesse banche e istituzioni che avevano puntato tutto, e perso, nel casinò della finanza. E' diventato così di senso comune l'arcano concetto di moral hazard, che in economia si riferisce ai disequilibri provocati nel mercato quando alcuni operatori economici si sentono rassicurati dal fatto che i costi, in caso di esito negativo dei rischi intrapresi, ricadano sulla collettività. La socializzazione delle perdite insomma, confutando palesemente l'etica meritocratica protestante, ha suscitato un forte risentimento che rispecchia un pò l'attitudine tedesca rispetto alla crisi in Europa.
Una serie di recenti reportage della paludata radio Npr, ad esempio, ha delineato caratteristiche e abitudini dell'evasore fiscale greco e italiano, spiegando agli ascoltatori che «in queste società l'evasione delle tasse non è sanzionata come altrove». Non senza alcune - ma solo alcune - buone ragioni, la crisi viene così ricondotta alla mancanza di civica virtù, ai vizi insomma che spiegherebbero l'avversione delle formiche tedesche al soccorso degli Stati-cicala del Sud europeo.
Boomerang, Travels in the New Third World, il travelogue di Michael Lewis attraverso le caratteristiche nazionali che hanno determinato i successivi fallimenti di modelli economici sovrani in Europa, è una specie di Bignami dei vizi europei. Appena messi in condizione, scrive Lewis, i greci hanno utilizzato il proprio governo come una cornucopia di servizi sociali finanziata dal debito estero; gli irlandesi hanno usato la marea di crediti improvvisamente disponibili per innescare una gigantesca bolla immobiliare; gli islandesi hanno usato i colossali prestiti per fare shopping di banche e aziende in paesi vicini. E i tedeschi pretendono ora futilmente che gli anelli deboli d'Europa si trasformino improvvisamente anche loro in previdenti tedeschi, rifiutando di condonare i propri vicini perché non sarebbe giusto pagare per i peccati del prossimo. L'«azzardo morale» appunto, al cui proposito l'editorialista Joe Nocera ha scritto sul Times: «Se non riusciranno, se non riusciremo, a superare il concetto di 'ciò che è giusto' non usciremo mai da questo putiferio. Dovremmo interessarci solo a ciò che può funzionare. Anche se dovesse significare sottoscrivere i debiti delle nazioni del Club Med», dove il villaggio vacanze sta per la dissipazione sudeuropea.
Ma gli americani intuiscono che subito dietro l'Islanda o l'Irlanda, la Grecia e l'Italia c'è una California che versa in condizioni non molto diverse (nella fattispecie, in rosso di 25 miliardi di dollari). Per loro che per un buon decennio si sono pagati una vacanza coi controfiocchi caricandola sulle carte di credito, la questione non è più puramente accademica. La crisi europea minaccia non solo il default di questo o quel lontano paese alleato (e probabilmente le possibilità di rielezione di Obama), ma incide anche sulla possibilità di accendere un mutuo in Kansas, o sul budget per i regali di Natale. L'onda d'urto di un catastrofico fallimento creditizio in Europa colpirebbe inevitabilmente l'americano medio: come ha detto in termini non propriamente tecnici l'economista Tyler Cowen, «se cade l'Europa siamo fritti».
Così il «disastro al rallentatore» in atto nella non poi così lontana Europa, lento ma ineluttabile, incombe minacciosamente sulla labile psiche di una cittadinanza che ha già assistito all'implosione dell'economia nazionale e insieme dell'idea dell'eccezione americana, istillando, come ha detto qualcuno, l'inedito sospetto che l'America sia semplicemente «un paese come un altro». L'orrore con cui gli americani scoprono di non essere più padroni del proprio destino non è solo quello di chi vede svanire il sogno della happiness economica, ma anche l'illusione, imparata alle elementari, che col duro lavoro si può debellare ogni crisi. Il recente declassamento di Moodys è stato una conferma del declino dura come un'onta, e uno spartiacque psichico per il paese che orfano del secolo americano si trova ad affacciarsi sul mondo più da partecipante che da padrone.
In questo mondo l'economia globale e la finanza mangia-stati sono forze incontrollabili che si insinuano angoscianti nell'arte, nel cinema e nella letteratura. Questo è l'anno in cui il crac finanziario è diventato fiction: Curtis Hanson ha adattato a film Too Big to Fail, il libro di Andrew Sorkin che è la ricostruzione giornalistica del «meltdown» che nel 2008 minacciò per alcune settimane di inghiottire Wall Street. Il big bang della recessione globale è raccontato qui come un thriller, o meglio un horror particolarmente efficace perché l'incubo non finisce alla fine del film. Il film racconta le disperate manovre dietro le quinte orchestrate dalla Federal Reserve, il Tesoro americano e le grandi banche di Wall Street per evitare in extremis il tracollo; non un Titanic forse, ma sicuramente un Avventura del Poseidon, coi protagonsiti che alla fine scampano per un pelo, non senza perdere alcuni compagni (riposi in pace la Lehman Bros). La narrativa del capitalismo sull'orlo del baratro costituisce ormai un inevitabile sottogenere emergente, a cui appartengono anche il documentario di Charles Ferguson Inside Job, premio Oscar dello scorso anno, Casino Jack di George Hickenlooper e Margin Call, un trattamento «teatrale» (fra Shakespeare e Beckett) della crisi ambientato nell'arco di una notte, all'interno di una grande società di investimento che tenta con riunioni fiume di salvarsi dopo aver scoperto un catastrofico buco nel bilancio. Uno dei personaggi di Too Big to Fail è basato su Timothy Geithner, attuale ministro del tesoro, che invitato all'anteprima newyorchese del film ha detto che il «delitto e castigo» insito nella crisi «è degno dell'antico testamento», pronosticando allo stesso tempo con «quasi certezza» che eventi simili siano destinati a ripetersi.
La crisi europea costituisce dunque solo l'attuale capitolo di una fiction tutt'altro che conclusa e sono molti a cercare di indovinarne i prossimi sviluppi. Sul Wall Street Journal lo storico Niall Ferguson ha recentemente publicato un saggio in cui immagina l'europa del 2021. Dieci anni dopo il tracollo del 2011, con epicentro a Roma e Atene, Ferguson delinea un vecchio continente dagli equilibri e dai confini ridisegnati. L'euro è stato salvato, ma a costo di diventare un Wholy German Empire, un sobrio impero fiscale guidato da un presidente europeo rampollo degli Asburgo. Nella cartina disegnata da Ferguson l'Italia e le altre penisole si intravedono laggiù, a sud, come leggiadro sfondo per seconde case di facoltosi tedeschi e cinesi in vacanza. Un grazioso e non inverosimile esercizio di fantapolitica economica, ma meno geniale di quello di Gary Shteyngart che nel suo romanzo Storia d'Amore Vera e Supetriste disegnava già due anni fa un presente futuro profondamente riplasmato dall'apocalisse economica. L'America in cui si muove Lenny Abramowitz, il protagonista oblomoviano del libro, è un amalgama di consumismo crepuscolare, narcisismo digitale e esasperato giovanilismo sullo sfondo di una bancarotta economica e culturale. I dollari valgono ormai come carta straccia, a meno che non si tratti della valuta collaterale garantita dallo yuan cinese. Anche l'euro è stato frammentato in valuta spazzatura e nel potente e affidabile «euro norvegese». Le multininazionali asiatiche si contendono la caracassa di un occidente imploso sotto il peso del proprio debito e della propria arroganza, mentre leader fantoccio spediscono l'esercito a sgombebrare i nuovi lumpen che per disperazione occupano i parchi cittadini: prima di uscire dal tunnel sarà necessario il passaggio attraverso una terrificante violenza. Una satira degna di Bulgakov che per la verità comincia in Europa, in una Roma meta di expats annnoiati in cerca di svago e di un grand tour edonista con sapore di parco a tema, ma al di là di questo del tutto marginale. E qui ancora un volta le cartine coincidono.
Simon Crichtley, in un articolo del New York Times (Euro Blind. The Crisis As Greek Tragedy), vede l'attuale collasso europeo in chiave di tragedia greca, sottolineando la corresponsabilità che nell'antica forma drammatica i protagonisti hanno nella propria sventura. Più avezzi alle geremiadi puritane che alle tragedie classiche, gli americani, che pure non hanno molto da ridere, hanno una tendenza naturale ad ascrivere le sventure alle deficenze etiche delle vittime stesse. Una fetta sostanziale di opinione pubblica è quindi ancora più propensa a incolpare gli «irresponsabili acquirenti di case troppo care» più che l'avidità degli architetti dell'infrastruttura dei mutui subprime implosa nel 2008. Un sentimento accentuato, paradossalmente, proprio dall'aver assistito impotenti al trasferimento di trilioni di dollari di fondi pubblici alle stesse banche e istituzioni che avevano puntato tutto, e perso, nel casinò della finanza. E' diventato così di senso comune l'arcano concetto di moral hazard, che in economia si riferisce ai disequilibri provocati nel mercato quando alcuni operatori economici si sentono rassicurati dal fatto che i costi, in caso di esito negativo dei rischi intrapresi, ricadano sulla collettività. La socializzazione delle perdite insomma, confutando palesemente l'etica meritocratica protestante, ha suscitato un forte risentimento che rispecchia un pò l'attitudine tedesca rispetto alla crisi in Europa.
Una serie di recenti reportage della paludata radio Npr, ad esempio, ha delineato caratteristiche e abitudini dell'evasore fiscale greco e italiano, spiegando agli ascoltatori che «in queste società l'evasione delle tasse non è sanzionata come altrove». Non senza alcune - ma solo alcune - buone ragioni, la crisi viene così ricondotta alla mancanza di civica virtù, ai vizi insomma che spiegherebbero l'avversione delle formiche tedesche al soccorso degli Stati-cicala del Sud europeo.
Boomerang, Travels in the New Third World, il travelogue di Michael Lewis attraverso le caratteristiche nazionali che hanno determinato i successivi fallimenti di modelli economici sovrani in Europa, è una specie di Bignami dei vizi europei. Appena messi in condizione, scrive Lewis, i greci hanno utilizzato il proprio governo come una cornucopia di servizi sociali finanziata dal debito estero; gli irlandesi hanno usato la marea di crediti improvvisamente disponibili per innescare una gigantesca bolla immobiliare; gli islandesi hanno usato i colossali prestiti per fare shopping di banche e aziende in paesi vicini. E i tedeschi pretendono ora futilmente che gli anelli deboli d'Europa si trasformino improvvisamente anche loro in previdenti tedeschi, rifiutando di condonare i propri vicini perché non sarebbe giusto pagare per i peccati del prossimo. L'«azzardo morale» appunto, al cui proposito l'editorialista Joe Nocera ha scritto sul Times: «Se non riusciranno, se non riusciremo, a superare il concetto di 'ciò che è giusto' non usciremo mai da questo putiferio. Dovremmo interessarci solo a ciò che può funzionare. Anche se dovesse significare sottoscrivere i debiti delle nazioni del Club Med», dove il villaggio vacanze sta per la dissipazione sudeuropea.
Ma gli americani intuiscono che subito dietro l'Islanda o l'Irlanda, la Grecia e l'Italia c'è una California che versa in condizioni non molto diverse (nella fattispecie, in rosso di 25 miliardi di dollari). Per loro che per un buon decennio si sono pagati una vacanza coi controfiocchi caricandola sulle carte di credito, la questione non è più puramente accademica. La crisi europea minaccia non solo il default di questo o quel lontano paese alleato (e probabilmente le possibilità di rielezione di Obama), ma incide anche sulla possibilità di accendere un mutuo in Kansas, o sul budget per i regali di Natale. L'onda d'urto di un catastrofico fallimento creditizio in Europa colpirebbe inevitabilmente l'americano medio: come ha detto in termini non propriamente tecnici l'economista Tyler Cowen, «se cade l'Europa siamo fritti».
Così il «disastro al rallentatore» in atto nella non poi così lontana Europa, lento ma ineluttabile, incombe minacciosamente sulla labile psiche di una cittadinanza che ha già assistito all'implosione dell'economia nazionale e insieme dell'idea dell'eccezione americana, istillando, come ha detto qualcuno, l'inedito sospetto che l'America sia semplicemente «un paese come un altro». L'orrore con cui gli americani scoprono di non essere più padroni del proprio destino non è solo quello di chi vede svanire il sogno della happiness economica, ma anche l'illusione, imparata alle elementari, che col duro lavoro si può debellare ogni crisi. Il recente declassamento di Moodys è stato una conferma del declino dura come un'onta, e uno spartiacque psichico per il paese che orfano del secolo americano si trova ad affacciarsi sul mondo più da partecipante che da padrone.
In questo mondo l'economia globale e la finanza mangia-stati sono forze incontrollabili che si insinuano angoscianti nell'arte, nel cinema e nella letteratura. Questo è l'anno in cui il crac finanziario è diventato fiction: Curtis Hanson ha adattato a film Too Big to Fail, il libro di Andrew Sorkin che è la ricostruzione giornalistica del «meltdown» che nel 2008 minacciò per alcune settimane di inghiottire Wall Street. Il big bang della recessione globale è raccontato qui come un thriller, o meglio un horror particolarmente efficace perché l'incubo non finisce alla fine del film. Il film racconta le disperate manovre dietro le quinte orchestrate dalla Federal Reserve, il Tesoro americano e le grandi banche di Wall Street per evitare in extremis il tracollo; non un Titanic forse, ma sicuramente un Avventura del Poseidon, coi protagonsiti che alla fine scampano per un pelo, non senza perdere alcuni compagni (riposi in pace la Lehman Bros). La narrativa del capitalismo sull'orlo del baratro costituisce ormai un inevitabile sottogenere emergente, a cui appartengono anche il documentario di Charles Ferguson Inside Job, premio Oscar dello scorso anno, Casino Jack di George Hickenlooper e Margin Call, un trattamento «teatrale» (fra Shakespeare e Beckett) della crisi ambientato nell'arco di una notte, all'interno di una grande società di investimento che tenta con riunioni fiume di salvarsi dopo aver scoperto un catastrofico buco nel bilancio. Uno dei personaggi di Too Big to Fail è basato su Timothy Geithner, attuale ministro del tesoro, che invitato all'anteprima newyorchese del film ha detto che il «delitto e castigo» insito nella crisi «è degno dell'antico testamento», pronosticando allo stesso tempo con «quasi certezza» che eventi simili siano destinati a ripetersi.
La crisi europea costituisce dunque solo l'attuale capitolo di una fiction tutt'altro che conclusa e sono molti a cercare di indovinarne i prossimi sviluppi. Sul Wall Street Journal lo storico Niall Ferguson ha recentemente publicato un saggio in cui immagina l'europa del 2021. Dieci anni dopo il tracollo del 2011, con epicentro a Roma e Atene, Ferguson delinea un vecchio continente dagli equilibri e dai confini ridisegnati. L'euro è stato salvato, ma a costo di diventare un Wholy German Empire, un sobrio impero fiscale guidato da un presidente europeo rampollo degli Asburgo. Nella cartina disegnata da Ferguson l'Italia e le altre penisole si intravedono laggiù, a sud, come leggiadro sfondo per seconde case di facoltosi tedeschi e cinesi in vacanza. Un grazioso e non inverosimile esercizio di fantapolitica economica, ma meno geniale di quello di Gary Shteyngart che nel suo romanzo Storia d'Amore Vera e Supetriste disegnava già due anni fa un presente futuro profondamente riplasmato dall'apocalisse economica. L'America in cui si muove Lenny Abramowitz, il protagonista oblomoviano del libro, è un amalgama di consumismo crepuscolare, narcisismo digitale e esasperato giovanilismo sullo sfondo di una bancarotta economica e culturale. I dollari valgono ormai come carta straccia, a meno che non si tratti della valuta collaterale garantita dallo yuan cinese. Anche l'euro è stato frammentato in valuta spazzatura e nel potente e affidabile «euro norvegese». Le multininazionali asiatiche si contendono la caracassa di un occidente imploso sotto il peso del proprio debito e della propria arroganza, mentre leader fantoccio spediscono l'esercito a sgombebrare i nuovi lumpen che per disperazione occupano i parchi cittadini: prima di uscire dal tunnel sarà necessario il passaggio attraverso una terrificante violenza. Una satira degna di Bulgakov che per la verità comincia in Europa, in una Roma meta di expats annnoiati in cerca di svago e di un grand tour edonista con sapore di parco a tema, ma al di là di questo del tutto marginale. E qui ancora un volta le cartine coincidono.
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