Nuova ricerca: sul continente nessuno ascolta gli artisti degli altri Paesi, vincono sempre gli Usa
Marco Zatterin è corrispondente da Bruxelles.
Lasciamo perdere che il rock è rimorto, quella è un'altra storia. Il problema del momento è che in Europa non c'è genere che se la passi veramente bene, abbiamo un grande mercato in cui l'Unione non fa l'hit single, una comunità che ha visto cadere le frontiere per tutto meno che per la musica, uno spazio a 12 stelle in cui circola ogni sorta di mercanzia eccezion fatta per le canzoni.
Il 75% delle volte che schiacciamo il tasto «play» scatta una traccia venduta da una major americana. In tutte le altre occasioni suoniamo locale o anglo-irish. Il risultato è che il business del Nuovo Mondo guida le orecchie del Vecchio. Le influenza e le sfrutta. Le controlla e, alla fine, le pilota. I produttori indipendenti, che stanno alle grandi case come il succo d'arancia bio alla Fanta, sono preoccupati.
Un'analisi firmata da Music Office, Eurosonic-Noordeslag e Nielsen su un campione di sei Stati (più circuito radio paneuropeo) rivela che nel nostro continente la musica non gira. Pochi sono i brani che vanno all'estero e meno i successi veramente totali. «è un chiaro segnale di allerta sui pericoli della concentrazione della musica a scapito della diversità», avverte Helen Smith, direttore di Impala, l'associazione delle piccole etichette. Il rischio è chiaro: la fine di un'identità, la colonizzazione senza alternative.
E' possibile, ma non siamo condannati. Non ancora. La scena musicale europea fotografata dal rapporto è «molto forte, creativa e diversificata». Ogni Paese «ha una solida cultura musicale locale». Nelle sale dei concerti delle capitali spuntano come funghi giovani talentuosi. Eppure, per colpa della struttura dei mercati nazionali, delle lingue, e di comportamenti culturali giustamente disomogenei, «il flusso dei repertori all'interno dell'Ue è lontano dalla nozione del mercato unico». Quando si canta o si suona, gli stati dell'Ue restano 27. Il solo filone universale è quello americano e persino il Regno Unito, culla di pop, punk, prog, new wave, post rock e buona parte dell'indie, arranca.
Si spiega con la guerra dei generi. L'Europa riesce a vendere la dance e il pop più commerciale. Gli americani ci conquistano con il R&B, l'hip-hop, la roba da ballare e le canzoni facili. «Il rock è quasi inesistente nelle classifiche europee», afferma il rapporto. Morto? Lo dicono da anni.
Deve essere colpa del campione, degli ascoltatori di casa Ue che nella media sono palati facili. Sulle cento canzoni più scaricate legalmente, 95 sono vendute da Sony e Universal. Gli indipendenti tirano la cinghia. Hanno il 10% dei successi e producono il 90% della musica europea.
Se si osservano le classifiche, senza contare chi è profeta in patria, si scopre che su 100 cantanti o gruppi europei sono 86 quelli inglesi che si affermano, 26 i francesi, 20 i tedeschi. Gli italiani sono messi male, fermi a quota quattro, il primo dei quali è il dj Alex Gaudino. Appena lo 0,2% delle canzoni che passano alla radio vengono dalla Penisola. Peggio di Olanda e Finlandia. E della Somalia.
Il mercato è dei mercanti, così se non ne potete più dei Coldplay sapete perché. C'è Adele. I Black Eyed Peas. Bruno Mars. Jennifer Lopez. Le sette note - globalmente in difficoltà, sia chiaro, a causa dei download pirata che rubano agli artisti - sono controllate da chi ha i dollari per imporsi. Le major sfruttano l'Europa dellediversità.
Che fare? Si propone di aiutare la musica a viaggiare, serve pure all'integrazione. Investendo. Lo studio suggerisce di sostenere la musica dal vivo, con piani finanziari per i nuovi talenti e i festival. Poi si potrebbe favorire campagne di marketing transfrontaliero e pensare a incentivi (e idee «virali») perché le stazioni radio trasmettano made in Europe.
Non vuol dire limitare le tradizioni. Al contrario si tratta di proteggerle e garantirne la diversità. è che troppa America e troppe Major rischiano di tagliarci le radici.
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