Record d'incassi al botteghino Usa, arriva sui nostri schermi The Help , il film di Tate Taylor tratto dal libro omonimo di Kathryn Stockett, travolgente best seller americano (quasi sei milioni di copie vendute solo in patria dall'uscita nel 2009, traduzioni ovunque), ma in Italia, due anni fa, trascurato, trattato da romanzo «al femminile», d'intrattenimento. Ora la Mondadori lo rilancia col titolo originale (non più L'aiuto come nella prima edizione) contando sul - prevedibile - successo cinematografico. Per sgombrare subito il campo dagli equivoci, dirò che mai un libro ha meritato più di questo una seconda chance.
Scrivere come ha scritto un recensore italiano (sul blog letterario www. panchinedimilano.com), che il romanzo di Kathryn Stockett «affronta un tema serio come l'apartheid nel Sud degli Stati Uniti con levità e sprazzi di umorismo» dà appena un'idea del genere di scempiaggini cui la storia è esposta. Perché, scusate, vi pare possibile che un argomento come l'apartheid venga trattato con «levità»? Sostituite alla parola «apartheid» la parola «nazismo» (cui l'apartheid è consustanziale), e rileggete la frase. Vi sembrerà intollerabile. Chi mai potrebbe trattare il nazismo con leggerezza e humor? Nessuno. E chi lo facesse riceverebbe applausi o condanne, secondo voi?
Detto questo, grazia e ironia in The Help abbondano, ma non sul tema dell' apartheid, bensì nei discorsi di chi ne è vittima, e quel brio non fa che metterne in rilievo la nefandezza. L'idea alla base del romanzo è quella di fare parlare le domestiche nere (gli «aiuti» del titolo) delle famiglie bianche e abbienti della città di Jackson, Mississippi; fargli raccontare in prima persona storie di infinita brutalità razziale (i discorsi a tavola sulla stupidità dei negri, la loro sporcizia; le accuse pretestuose di furto, i licenziamenti per motivi futili e feroci, la segregazione spinta fino all'edificazione di gabinetti esterni alla casa per le serve nere…) annidate fra la cottura di un pollo, la lucidatura di un vassoio d'argento, la pulitura di un culetto infantile.
A tenere insieme i racconti delle domestiche - che sono anche vivacissimi ritratti di interni familiari, padroni, padrone, figli - una giovane neolaureata della buona società «bianca» che li trascrive, vi aggiunge la sua personale esperienza, confeziona un libro che sarà pubblicato e metterà lei e le coautrici a repentaglio. Non ultimo pregio del libro la fatica con cui Skeeter - questo il nome della giovane - si stacca dalla società in cui è nata, pur denunciandola.
Kathryn Stockett è venuta in Italia per la presentazione del film e il rilancio del libro. È una signora filiforme, bionda, adolescenziale (benché abbia 42 anni) e sofferente. Passata nel tritacarne di centinaia di interviste, è palesemente esausta. Per rispondere a domande sulla nascita del libro (l'ispirazione le è venuta ripensando alla vita della sua tata nera Demetrie) e l'esperienza personale che vi ha travasato (il mondo dell'alta borghesia bianca di Jackson è il mondo dov'è nata e cresciuta) innesta il pilota automatico. Ma quando le dico che dopo avere letto The Help ho ripreso in mano Il buio oltre la siepe , la sua attenzione si desta.
Harper Lee ha ambientato la sua storia negli anni Trenta, signora Stockett, lei negli Anni 60, ma a leggere i due libri sembra che poco sia cambiato. I pregiudizi razziali delle signore invitate ai tè di Alexandra Finch nel Buio sono gli stessi delle signore invitate ai bridge di Elizabeth Leefolt in The Help . Le cose sono finalmente diverse, adesso? Lei sospira: «È difficile cambiare a cinquanta, sessant'anni. Se ti hanno educato in un certo modo andrai avanti a pensarla allo stesso modo fino alla morte. Ma i tuoi figli saranno diversi, perché avranno avuto esperienze diverse, e i figli dei loro figli saranno ancora più diversi… È un processo lungo». Intende dire che il razzismo è ancora rampante, nel Sud degli Usa? «Ci sono troppe persone che non trovano nessun motivo per cambiare. E anche quelli che sono cambiati poi portano avanti - portiamo avanti - un modo di vivere che sembra tale e quale a prima. Io vivo ad Atlanta (la capitale della Georgia, ndr) tra gente che la pensa come me, tutte persone della buona borghesia cittadina, colte, progressiste, ma ai pranzi ci sono solo bianchi».
E infatti quello che rende così palpitante il suo libro è la sensazione che vi risuoni l'attualità, l'ansia per un presente che resta ancorato al passato. Il film, invece, è rassicurante. «Rassicurante?». Ma sì! Guardate cosa succedeva una volta - sembra dire - tremendo, no? Tranquilli, non è più così. Grazie a donne coraggiose come le nostre eroine tutto è mutato. Una visione rosea, caramellosa... «Be', è un film americano (ride). Però, ecco, non sono del tutto d'accordo con lei. Sa perché? Perché c'è Viola Davis, nella parte principale (Aibileen, la domestica che per prima si decide a parlare, ndr). Viola Davis rende ogni momento credibile, scaccia ogni ottimismo di maniera. E nello stesso tempo riafferma le potenzialità delle donne nere, le svincola da ogni stereotipo, ogni cliché…».
Celebre interprete teatrale, ma già candidata all'Oscar come non protagonista per Il dubbio, un film del 2008 con Meryl Streep e Philip Seymour Hoffman, Viola Davis è tra le più probabili candidate alla statuetta di quest'anno per la migliore attrice. Concorrenti agguerrite non le mancano. Ma un premio a lei significherebbe ben più di un riconoscimento all'artista. I giudici dell'Academy senza dubbio lo sanno.
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