La storia delle idee è una storia di connessioni «nel nostro cervello e tra le persone», sostiene lo scrittore Kevin Kelly nel volume What Technology Wants. E quella della Silicon Valley non fa eccezione: il genio di cui è testimone ha una profonda componente sociale. Non a caso il primo colosso del fortunato lembo di California a sud di San Francisco nasce nel 1939 dall’incontro di due studenti di Stanford, Bill Hewlett e David Packard.
E non a caso nasce in un garage: il rifugio creativo dove Steve Jobs e Steve Wozniak, molti anni più tardi, inventeranno il computer moderno. Amicizie, e rotture. Come quella, a seguito della bolla tecnologia di fine millennio e della vendita a eBay, che porta i fondatori del servizio di pagamento online PayPal a dividersi. Ma continuando a sentirsi, consultarsi. E finanziarsi l’un l’altro. Al punto di darsi un nome significativo: the «PayPal mafia». Tutto deve restare nella «famiglia». Grazie al «boss», l’ex ceo Peter Thiel, e al suo «braccio destro», Max Levchin, si sviluppano siti come Yelp, Digg e You- Tube.
Ed è proprio Thiel a versare 500 mila dollari nelle casse di Mark Zuckerberg quando credere in Facebook è ancora una scommessa. Loro, i «mafiosi», stanno al gioco. E si fanno pure immortalare in abiti da gangster in uno storico scatto di «Fortune», nel 2007. Anche se il termine risente di una evidente tendenza a banalizzare, i risultati lasciano il segno. Gli analisti parlano di un gruppo di «imprenditori seriali superconnessi e iperintelligenti» che stanno mettendo in subbuglio la Valley. Rompendo le gerarchie, valorizzando il talento più che i titoli di studio. E la sete di denaro, subito.
Oggi la metafora (logora) della criminalità organizzata torna di attualità sul popolare blog di tecnologia TechCrunch. Ma il bersaglio adesso è il social network Facebook, che tra meno di un mese sbarcherà in Borsa. Anche qui vale la norma: si può lasciare l’azienda, ma non perdersi di vista. E di nuovo, ci sono soldi e idee in ballo. Così se gli ex ingegneri di Facebook, Adam D’Angelo e Charlie Chiever, creano Quora, ecco arrivare i fondi di Matt Cohler, uno dei primi cinque storici dipendenti di Zuckerberg. D’Angelo, poi, è nel board di Asana, del co-fondatore di Facebook Dustin Moskowitz. «Abbiamo creato Facebook, ed è radicato nel modo in cui pensiamo», ha detto Dave Morin, anche lui uscito dall’azienda per creare il social rivale, Path. «Pensiamo per network, ora». E conviene: a questo modo, i giovani miliardari possono decretare la vita e la morte di un progetto. E dare una direzione al futuro: quella che assomiglia alle loro ossessioni. Dicono di voler cambiare il mondo, e in parte ci sono riusciti. Ma siedono su aziende permolti sul punto di scoppiare in una seconda bolla tecnologica. E su un paradosso: che tutto il «surplus cognitivo» sviluppato in Rete (quel tempo libero che, grazie al web, produce valore nell’accezione dello studioso dei new media Clay Shirky) si realizzi nella sola Silicon Valley.
Finora averne fatto un social network ha funzionato. Ma le concentrazioni di potere, all’eccesso, tendono alla conservazione. Anche per innovare, essere «amici» non è come essere amici.
Twitter @fabiochiusi
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