Il 2012 non è il 2008, e sarebbe sbagliato attendersi dalle
presidenziali americane gli stessi entusiasmi e le stesse promesse. C'è in
mezzo la peggiore crisi finanziaria dell'era industriale, come la definisce
Adair Turner, supremo arbitro della finanza britannica. Ci sono più cifre,
pesanti spesso, che visioni. Obama promette di salvare la classe media, ma per
lui il voto è più su quanto ha fatto che su ciò che promette. È sempre un
referendum sui quattro anni trascorsi, quando il presidente in carica si ripresenta.
La sfida repubblicana è in nome del mercato contro lo "statalismo"
presunto di Obama, come se l'America di oggi, sorretta da proporzioni mai viste
di credito pubblico, non avesse ormai la capitale finanziaria a Washington e
non più a Wall Street. Un dato che difficilmente i repubblicani potrebbero
cambiare. Per chi vota la prima domanda è semplice: l'uomo della Casa Bianca si
merita il rinnovo? Se sì, il gioco è fatto. Se un elettore non è convinto,
osserva l'avversario, e a volte lo preferisce. Ma sempre lo prende in
considerazione. A scontrarsi sono quindi raramente due visioni, ma fatti da un
lato, e promesse dall'altro.
Due visioni si sono davvero scontrate solo due volte, negli
ultimi 60 anni. È successo nel 1952 e nel 2008. Nel '52 Harry Truman sconfitto
alle primarie non si presentò, nemmeno il suo vice lo fece, e fu lasciato campo
libero ad Adlai Stevenson. Lui e Dwight Eisenhower candidato dei repubblicani poterono
tratteggiare la loro visione dell'America, più in politica estera che interna,
poiché i repubblicani si guardarono bene con Eisenhower dallo sfidare il New
Deal. Nel 2008, con Obama e McCain, non legati a passati governi, sarebbe stato
un caso quasi perfetto di due visioni, la sollecitudine sociale contro
l'efficienza e la forza del mercato, se la grande crisi finanziaria non fosse
arrivata a 45 giorni dal voto a scompigliare tutte le carte. Le altre 15
competizioni elettorali, dal 1944
in poi, sono state invece dei referendum sul presidente
in carica, o sul suo erede diretto. Economia e personalità sono i due scogli,
per Obama il primo e Romney il secondo, osserva Andrew Kohut presidente del Pew
Research Center, dopo l'ultima analisi ragionata degli umori elettorali, a metà
aprile. Obama vincerà o perderà sull'economia, che non è esaltante, e potrebbe
peggiorare, secondo vari crescenti segnali. Romney deve superare un notevole
handicap, lo scarso appeal personale, che secondo il Pew research center è di
gran lunga il più basso fra quello dei candidati degli ultimi decenni.
Se l'economia peggiora, e potrebbe, e la disoccupazione
risale verso il 9% l'impresa di Obama diventa difficile. Finora nessuno è stato
rieletto con più dell'8% di disoccupati, e il basso appeal personale del troppo
ricco Romney potrebbe venire superato. Viceversa se resta la speranza,
nonostante i bassi punteggi che la gestione economica di Obama ottiene, il
presidente potrebbe venire confermato. Nessuno con un indice di favorability
basso quanto Romney è mai stato eletto. Una corsa al ribasso, insomma.
Impossibile per ora fare previsioni serie. Solo i bookmaker le fanno, in genere
con Obama vincitore. Ma per quale America? Obama è per una fair America che
salva la classe media, mai in difficoltà causa crisi quanto nei suoi quattro
anni. Romney per il mercato, che non ha defaillance, dice, e prospera con le
sue distruzioni creative, di cui Romney come campione del private equity è un
maestro. Nessuno, sotto il cielo piuttosto confuso dell'America di oggi, dice
nei comizi che l'iperfinanza e la crisi hanno reso anche la patria del
capitalismo l'ombra di se stessa, con mercati finanziari ampiamente Washington-dipendenti
Un anno fa, più o meno, per chi analizzava con attenzione i
dati del Flow of funds della Federal Reserve, appariva chiaro il sorpasso della
finanza pubblica su quella privata nel finanziamento dei consumi. Linee di
credito emesse da Washington, e soprattutto garantite da Washington, salivano
al primo posto nel finanziamento di tutti i mutui in essere e del credito al
consumo, un netto rovesciamento rispetto al 2006, quando ogni dollaro con
dietro Washington ne fronteggiava due del libero mercato. Giorni fa, poi, uno
studio della Brookings, la venerabile think tank vicina ai democratici, ha
messo il suggello su questi dati, ricordando in un'analisi di Douglas J.
Elliott intitolata "Uncle Sam in Pinstripes", lo zio Sam banchiere,
come sia ormai Washington con i suoi finanziamenti e assicurazioni su crediti
per mutui e famiglie, agricoltura, imprese e studenti il primo banchiere
d'America, 2.700 miliardi a fine 2011, più del portafoglio della prima banca
privata, JPMorgan. E questo senza contare la garanzie sulle megafinanziarie
immobiliari Fannie e Freddie, sul sistema delle Federal Home Loan Banks e e
altri impegni assunti dall'esecutivo (extra Federal Reserve quindi) in seguito
alla crisi. Il tutto porterebbe lo zio Sam banchiere a circa 9mila miliardi di
esposizione.
Sono cifre di cui si parlerà poco nella campagna elettorale.
Si parla e parlerà di debito pubblico, e molto, ma è un tema rinviato a dopo il
voto, in realtà. E certamente i candidati non diranno mai che il debito
pubblico è vicino a quello italiano, sul Pil, se si prendono i dati ufficiali,
e non lontano da quello giapponese se si considerano anche le principali
garanzie che Washington offre senza iscriverle a bilancio. Ai vertici mondiali,
insomma. Non sarà una campagna elettorale molto ispirata. Sarà dura,
imprevedibile, ambigua nel tratteggiare la realtà, incerta. E speriamo che nel
2016 arrivi qualche vera ispirazione.
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