lunedì 23 aprile 2012

STATO E MERCATO IN USA. MARGIOCCO M., C'è tanto Stato nel mercato Usa, IL SOLE 24 ORE, 22 aprile 2012


Il 2012 non è il 2008, e sarebbe sbagliato attendersi dalle presidenziali americane gli stessi entusiasmi e le stesse promesse. C'è in mezzo la peggiore crisi finanziaria dell'era industriale, come la definisce Adair Turner, supremo arbitro della finanza britannica. Ci sono più cifre, pesanti spesso, che visioni. Obama promette di salvare la classe media, ma per lui il voto è più su quanto ha fatto che su ciò che promette. È sempre un referendum sui quattro anni trascorsi, quando il presidente in carica si ripresenta. La sfida repubblicana è in nome del mercato contro lo "statalismo" presunto di Obama, come se l'America di oggi, sorretta da proporzioni mai viste di credito pubblico, non avesse ormai la capitale finanziaria a Washington e non più a Wall Street. Un dato che difficilmente i repubblicani potrebbero cambiare. Per chi vota la prima domanda è semplice: l'uomo della Casa Bianca si merita il rinnovo? Se sì, il gioco è fatto. Se un elettore non è convinto, osserva l'avversario, e a volte lo preferisce. Ma sempre lo prende in considerazione. A scontrarsi sono quindi raramente due visioni, ma fatti da un lato, e promesse dall'altro.




Due visioni si sono davvero scontrate solo due volte, negli ultimi 60 anni. È successo nel 1952 e nel 2008. Nel '52 Harry Truman sconfitto alle primarie non si presentò, nemmeno il suo vice lo fece, e fu lasciato campo libero ad Adlai Stevenson. Lui e Dwight Eisenhower candidato dei repubblicani poterono tratteggiare la loro visione dell'America, più in politica estera che interna, poiché i repubblicani si guardarono bene con Eisenhower dallo sfidare il New Deal. Nel 2008, con Obama e McCain, non legati a passati governi, sarebbe stato un caso quasi perfetto di due visioni, la sollecitudine sociale contro l'efficienza e la forza del mercato, se la grande crisi finanziaria non fosse arrivata a 45 giorni dal voto a scompigliare tutte le carte. Le altre 15 competizioni elettorali, dal 1944 in poi, sono state invece dei referendum sul presidente in carica, o sul suo erede diretto. Economia e personalità sono i due scogli, per Obama il primo e Romney il secondo, osserva Andrew Kohut presidente del Pew Research Center, dopo l'ultima analisi ragionata degli umori elettorali, a metà aprile. Obama vincerà o perderà sull'economia, che non è esaltante, e potrebbe peggiorare, secondo vari crescenti segnali. Romney deve superare un notevole handicap, lo scarso appeal personale, che secondo il Pew research center è di gran lunga il più basso fra quello dei candidati degli ultimi decenni.



Se l'economia peggiora, e potrebbe, e la disoccupazione risale verso il 9% l'impresa di Obama diventa difficile. Finora nessuno è stato rieletto con più dell'8% di disoccupati, e il basso appeal personale del troppo ricco Romney potrebbe venire superato. Viceversa se resta la speranza, nonostante i bassi punteggi che la gestione economica di Obama ottiene, il presidente potrebbe venire confermato. Nessuno con un indice di favorability basso quanto Romney è mai stato eletto. Una corsa al ribasso, insomma. Impossibile per ora fare previsioni serie. Solo i bookmaker le fanno, in genere con Obama vincitore. Ma per quale America? Obama è per una fair America che salva la classe media, mai in difficoltà causa crisi quanto nei suoi quattro anni. Romney per il mercato, che non ha defaillance, dice, e prospera con le sue distruzioni creative, di cui Romney come campione del private equity è un maestro. Nessuno, sotto il cielo piuttosto confuso dell'America di oggi, dice nei comizi che l'iperfinanza e la crisi hanno reso anche la patria del capitalismo l'ombra di se stessa, con mercati finanziari ampiamente Washington-dipendenti



Un anno fa, più o meno, per chi analizzava con attenzione i dati del Flow of funds della Federal Reserve, appariva chiaro il sorpasso della finanza pubblica su quella privata nel finanziamento dei consumi. Linee di credito emesse da Washington, e soprattutto garantite da Washington, salivano al primo posto nel finanziamento di tutti i mutui in essere e del credito al consumo, un netto rovesciamento rispetto al 2006, quando ogni dollaro con dietro Washington ne fronteggiava due del libero mercato. Giorni fa, poi, uno studio della Brookings, la venerabile think tank vicina ai democratici, ha messo il suggello su questi dati, ricordando in un'analisi di Douglas J. Elliott intitolata "Uncle Sam in Pinstripes", lo zio Sam banchiere, come sia ormai Washington con i suoi finanziamenti e assicurazioni su crediti per mutui e famiglie, agricoltura, imprese e studenti il primo banchiere d'America, 2.700 miliardi a fine 2011, più del portafoglio della prima banca privata, JPMorgan. E questo senza contare la garanzie sulle megafinanziarie immobiliari Fannie e Freddie, sul sistema delle Federal Home Loan Banks e e altri impegni assunti dall'esecutivo (extra Federal Reserve quindi) in seguito alla crisi. Il tutto porterebbe lo zio Sam banchiere a circa 9mila miliardi di esposizione.



Sono cifre di cui si parlerà poco nella campagna elettorale. Si parla e parlerà di debito pubblico, e molto, ma è un tema rinviato a dopo il voto, in realtà. E certamente i candidati non diranno mai che il debito pubblico è vicino a quello italiano, sul Pil, se si prendono i dati ufficiali, e non lontano da quello giapponese se si considerano anche le principali garanzie che Washington offre senza iscriverle a bilancio. Ai vertici mondiali, insomma. Non sarà una campagna elettorale molto ispirata. Sarà dura, imprevedibile, ambigua nel tratteggiare la realtà, incerta. E speriamo che nel 2016 arrivi qualche vera ispirazione.

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