Ieri il New York Times ha pubblicato una sua lunga inchiesta sulle tangenti pagate da Wal-Mart in Messico. Ventiquattro milioni per aprire in fretta megastores, ottenere permessi e così via. Quando al quartier generale di Betonville, Arkansas seppero del comportamento del loro manager, anziché cercare di mettere a posto la situazione, lavorarono per nasconderla. Anzi, l’uomo che aveva organizzato il pagamento delle tangenti e favorito la crescita del gruppo in Messico, Eduardo Castro-Wright, venne promosso a vicepresidente di tutto il gruppo.
Questa in sintesi la denuncia del Times, accompagnata come sempre da testimonianze e prove. Che non si spara contro Wal Mart senza documentazione. Nonostante sia una catena di negozi – niente di innovativo o tecnologico – Wal-Mart è il più grande datore di lavoro degli Stati Uniti, la prima multinazionale del Paese da due anni a questa parte (8 volte in dieci anni, secondo Fortune). Produce più o meno tutto quello che vende e vende in Messico, Cina (qui una mappa dei negozi cinesi) e ovunque ci sia necessità di prodotti a poco prezzo. Quasi non troverete Wal-Mart a Manhattan, a San Francisco, nel centro di Chicago. I suoi negozi sono lungo le strade che connettono i suburbs ai centri urbani, nelle aree depresse. In Messico l’anno scorso hanno venduto per 29 miliardi di dollari, aperto più di 350 negozi. Ma ha trovato il modo di evadere le tasse. Anche pagando tangenti. Un modo come un altro di contribuire alla democratizzazione del vicino destinato a essere una parte integrante del futuro degli Usa. Come quando nell’anno della crisi finanziaria Wachovia riciclava il denaro dei narcos – la banca ha patteggiato per 110 milioni, ergo era colpevole. Wal-Mart come molte altre compagnie tende ad avere un’attitudine crociata, tradizionalmente anti sindacati. Il gruppo, che resta familiare, ha prodotto gli ereditieri più ricchi d’America (la loro ricchezza è equiparabile al totale di quella del 30% più povero). Due anni fa ha lanciato una campagna per abbassare la propria impronta ecologica in Cina, imponendo nuovi standard ai suoi fornitori. Senza alzare i prezzi che è disposta a pagare: molto bassi. Qui una lunga inchiesta di Mother Jones racconta come mai non è riuscita nell’intento di abbassare il consumo di energia e ridurre il proprio tasso di inquinamento.
Un esempio? il grafico qui accanto, che racconta il viaggio di una T-shirt dalla raccolta del cotone fino al negozio. Wal-Mart infatti è il cuore del modello di consumo americano: produci a poco in Cina, vendi a poco a consumatori senza soldi in America. Nel complesso un pessimo modello. Se aggiungiamo che le organizzazioni di donne sono molto critiche con il gruppo, che paga meno le donne, le discrimina e non le promuove mai a posizioni di rilievo (una class action è finita alla Corte Suprema l’anno scorso, ma ha perso), abbiamo un quadro edificante. Infine, un po’ di ipocrisia: Wal-Mart è saltata a bordo della crociata di Michelle Obama contro l’obesità promettendo nuovi prodotti e misure dei prodotti commercializzati. Ma, quanto a ecologia non ci siamo: i prodotti con l’etichetta “locale” sono classificati così perché vengono dallo Stato in cui è il negozio. Non solo, se nel 2004 versavano più di un milione in contributi elettorali ai repubblicani, da quando c’è Obama alla Casa Bianca hanno quasi pareggiato i conti, versando, per esempio quest’anno, 290mila ai democratici e 330mila ai repubblicani. I soldi vanno alle persone capaci di influenzare le scelte – se sono repubblicani, meglio. Ma questa è una caratteristica di molte grandi corporation americane. Se sono i repubblicani al potere, preferiscono loro. Se ci sono i democratici, dividono.
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