domenica 16 ottobre 2011

PORTELLI S., Il filosofo e il Kansas. I fratelli gemelli dei colletti blu, Il manifesto, 12 ottobre 2004

Una riflessione a partire dal testo di Slavoj Zizek sul consenso dell’America profonda verso il populismo radicale conservatore.



Bellicisti, sessisti, ostili all’élite. La rabbia degli operai Usa alimenta la mobilitazione su interessi «morali» e a favore del patriottismo di guerra
Atlanta, Georgia, 1973. Ero ospite di giovani attivisti bianchi del Sud che avevano rischiato la vita per i diritti civili, stavano in tutte le lotte ambientali e sindacali, e collaboravano a The Whole Earth Catalogue, la rivista controculturale di Gary Snyder e Ken Kesey. Con stupore, vidi che i loro scaffali erano pieni di dischi di country music. Credevo che fosse musica fascista per bianchi reazionari del Sud. Glielo dissi, e mi risposero: comprati un disco di Merle Haggard. La prima canzone dei Greatest Hits, «Okie from Muskogee», confermò tutti i miei pregiudizi: una requisitoria contro i pacifisti coi sandali e le collanine, in nome dell’America western con gli stivali. La seconda, «Mama’s Hungry Eyes», fu una rivelazione: «rivedo ancora la fame negli occhi di mia madre, l’accampamento di profughi della Depressione in cui sono cresciuto, sapendo che era un’altra classe quella che ci teneva in quelle condizioni». In nessun disco rock avevo mai sentito la parola «classe». Imparai più da quei cinque minuti di disco che da anni di studio. Si diceva allora che gli operai americani erano conservatori perché «integrati nel sistema». Con Bruno Cartosio, Peppino Ortoleva, Nando Fasce, smontavamo questo mito riscoprendo i durissimi conflitti di classe nella storia americana. Ma Merle Haggard mi spalancò gli occhi su un’altra dimensione: il patriottismo macho e bellicista non era il segno dell’«integrazione» ma il suo contrario, una dislocata compensazione al senso di emarginazione e di impotenza dell’America proletaria e rurale. In quello stesso viaggio, avevo scoperto che i siderurgici di Pittsburgh lavoravano in un ambiente tossico che quelli di Terni non avrebbero mai tollerato; e il loro sindacato aveva appena firmato un patto anti-sciopero. Altro che integrazione, questi crepavano senza diritti. Me ne sono ricordato leggendo la bellissima recensione di Slavoj Zizek a What’s the Matter with Kansas di Thomas Frank («Il cuore nero degli Stati Uniti», il manifesto, 7 ottobre).
Frank e Zizek partono da una domanda: come mai la base sociale del populismo radicale e conservatore nel cuore dell’America (agricoltori, piccolissima borghesia, operai) vota repubblicano contro i propri interessi economici, e si mobilita su interessi «morali» – contro l’aborto, l’omosessualità, il femminismo e i diritti civili, per un patriottismo di guerra e la pena di morte? La chiamerei «sindrome Merle Haggard»: il conflitto economico si sposta e diventa conflitto culturale, ma alle radici del conflitto culturale resta un dato, un risentimento, di classe. Nei sandali e nelle collanine degli hippies, noi vedevamo lo stile di vita alternativo, ma gli Okies di Muskogee (in Italia si direbbe: «i burini della Sgurgola») ci vedevano la classe. E siccome gli hippies gli parevano signorini pacifisti, antirazzisti e «femminilizzati», a loro veniva confermato che per essere veri americani e cristiani bisognava essere bellicisti, razzisti e maschilisti (contro i loro interessi: in Vietnam poi ci morivano loro). Ora, una simile dislocazione dall’economico al simbolico-culturale avviene anche nella visione liberal progressista, dove infatti «classe» viene assimilato al catalogo delle differenze («genere, orientamento sessuale, `razza’»).
Ma, osserva Zizek, non è la stessa cosa: esiste una «fondamentale differenza tra la lotta femminista/antirazzista/antisessista e la lotta di classe». Le battaglie antirazziste e antisessiste, scrive, sono battaglie «orizzontali» che «puntano al pieno riconoscimento dell’altro», per «neutralizzare gli antagonismi» e permettere l’espressione di tutte le differenze e l’orgoglio di tutte le identità. La lotta di classe è invece un conflitto «verticale» in cui l’affermazione di un soggetto si realizza antagonisticamente a spese dell’altro. «Razza» o genere possono essere giocati in termini di identità; ma la classe, come spiegava E. P. Thompson, non è un’identità bensì una relazione, e quindi non è declinabile in termini di molteplicità pluralista se non azzerandone l’antagonismo. Tanto l’elite culturale liberale quanto la cultura di massa tendono a trattare la classe come un’altra categoria identitaria, un insieme di simboli autosufficienti che marcano una diversità ma non un conflitto: tra un agente di borsa e un operaio, la differenza sarebbe solo di stili di vita. Perciò, studi culturali accademici e cultura di massa convergono in un punto: la strategia per sottrarre la classe al disprezzo classista delle élite urbane e di tanta controcultura non riguarda i rapporti economici o il potere ma l’«orgoglio» e la comunità.
Penso a quella canzone country di Johnny Russell, che dice «come stiamo bene tra noi, noi rednecks [i «colli rossi», per il sole] con le calze bianche e la birra nastro azzurro» – i colori della bandiera. O a George Jones («la quintessenza della voce americana», diceva un mio amico che aveva fatto il minatore prima di fare il sociologo all’università): «sono un manovale di poco conto [a small-time laboring man], otto ore al giorno sei giorni alla settimana per mantenere la mia famiglia con le mie mani incallite; combatterò per il mio paese con le mie mani incallite, anche se sono solo un lavoratore di poco conto». Ascoltandola, speravo che dopo «combatterò» dicesse «per i miei diritti» – basterebbe cambiare una parola per trasformare il lamento in denuncia e lotta. Ma quella parola non la dice nessuno: la dignità negata di questo operaio «di poco conto» non si riscatta con le 35 ore e i diritti sindacali ma sventolando la bandiera, quindi continuerà a lavorare 48 ore la settimana e a votare per i suoi sfruttatori – proprio perché è sfruttato. In questi giorni, negli Stati Uniti, da più parti mi hanno parlato di una «rabbia» proletaria che si esprime nel voto per Bush, il fondamentalismo e la guerra.
Un rapporto di classe non è fatto solo di sfruttamento economico, ma anche dell’umiliazione della subalternità. Negli Stati uniti – per eredità calvinista, per propaganda mediatica, e perché comunque i poveri americani hanno meno fame e sete di quelli del Burkina Faso – il bisogno di rispetto viene in primo piano rispetto alla giustizia economica. Gli insulti – rednecks, hillbillies, Okies – si trasformano in bandiere: non a caso, Merle Haggard proclamava «Sono fiero di essere un Okie from Muskogee» (nessuno sente il bisogno di cantare «sono fiero di essere un avvocato di Manhattan», o uno stilista di Milano). Storicamente, la classe operaia italiana (penso a un’altra bellissima pagina del manifesto, la storia di «Archimede, cazzuola e dignità», di Manuela Cartosio, 9 ottobre) trae dignità dall’avere resistito e lottato contro un sistema di sfruttamento di cui a volte, per sottolineare il punto, accentuano i tratti oppressivi. Con gli operai americani, bisogna fare la tara in senso inverso: essere sfruttati è umiliante, perciò ti nascondono sempre il peggio, danno sempre un quadro meno cupo, perché derivano l’orgoglio dall’essere stati «rispettati», dal «riconoscimento» dalla controparte. La condivisa dislocazione culturale della rabbia di classe, dunque, fa di questo populismo radical-conservatore uno specchio capovolto delle elite liberali: «in altre parole – chiede Zizek – i populisti conservatori non sono il sintomo dei liberali illuminati tolleranti? L’inquietante e ridicolo redneck del Kansas che sbotta infuriato contro la corruzione liberal non è la stessa figura nella cui guisa il liberal incontra la verità della sua stessa ipocrisia?» Paradossalmente, nota, è il fondamentalismo populista a «conservare questa logica dell’antagonismo». Dunque, conclude, noi dovremmo «avere il coraggio di cercare un alleato in colui che appare come il nemico estremo del liberalismo tollerante».
Mi è parsa una conclusione eccessiva e provocatoria. Poi mi sono chiesto: chi frequento, di chi registro le storie e la musica, quando vado in Kentucky? Sono proprio loro: rednecks, hillbillies, maneggiatori di serpenti, pentecostali – che poi trovi sui picchetti contro la distruzione dell’ambiente e nel sempre più evanescente movimento sindacale. La prima volta che telefonai ad Annie Napier a Harlan per chiedere un’intervista, lei si consultò con la sorella, e conclusero: se non ha troppa puzza sotto al naso, ci parliamo. E’ la nostra puzza sotto al naso quando entriamo in casa loro che gli fa rabbia.
Certo, l’«alleanza» di cui parla Zizek passa per una doppia trasformazione: dobbiamo cambiare atteggiamento e linguaggio noi, perché loro possano cambiare linguaggio e dire fight for my rights invece che fight for my country. Ma questo non accade se insultiamo i loro simboli e i loro sentimenti – per esempio, il patriottismo – invece di ingaggiarli ed elaborarli. Penso all’uso della bandiera e dell’inno che fanno Jimi Hendrix o Bruce Springsteen: abbiamo altri suoni, ma condividiamo i vostri simboli. Forse il modo migliore di combattere «per il nostro paese» è proprio combattere «per i nostri diritti»: «giustizia economica», dice Bruce Springsteen nei concerti di Move On, per un’America migliore. Sono proprio musicisti, nelle pieghe più basse della cultura di massa, quelli che tengono più aperta questa comunicazione: rockers dal colletto blu come Steve Earle o Bob Seger, o musicisti country come Iris Dement o Peter Rowan. Certo, devono navigare acque infide, convivere con l’ambiguità o l’incomprensione: penso al variegato, oscillante populismo country di Willie Nelson o di Johnny Cash; o a quelli che si ostinano a non sentire che cosa dice Born in the USA. Ma Johnny Cash e Willie Nelson, Bob Seger e Steve Earle, i carcerati di San Quintino, i redneck dell’Arkansas, i camionisti di notte, i contadini a cui Earle, Mellencamp, Nelson portano i ricavi di Farm Aid, li stanno a sentire. Forse sulla pena di morte imparano di più da tre minuti di disco di Steve Earle («Billy Austin») che da tutte le nostre prediche.
Infine. Merle Haggard, musicista country ed ex carcerato, si è pronunciato di recente contro la pena di morte e contro la guerra in Iraq. Persino un Okie di Muskogee, alla fine, può cambiare.

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