lunedì 12 marzo 2012

ARTE USA OGGI. DEL DRAGO E., Si fa piccolo il sogno americano, LA STAMPA, 12 marzo 2012

AMERICAN DREAMERS
FIRENZE, STROZZINA
FINO AL 15 LUGLIO




C’è ancora il sogno al centro della vita e dunque dell’arte statunitense, ma è lontano, molto lontano dall’American dream che abbiamo imparato a conoscere, fatto di poche, incrollabili certezze, costruito attraverso regole dure, ma capaci di portare dritti al successo e alla ricchezza. È un sogno che ha attraversato la disillusione: non soltanto della politica e delle sue possibilità, ma anche di quelle convinzioni che, fino a poco tempo fa, hanno sorretto il sistema americano. Un sistema costretto da una crisi economica drammatica e dalla crescita inarrestabile di altre aree del mondo a ripensarsi profondamente, e ad aprire la strada in questa riflessione vitale sono registi ed artisti che sembrano reagire (anche la Biennale del Whitney Museum di New York appena aperta sembra andare in questa direzione) in due modi opposti, documentando la realtà in modo letterale o inventandone un’altra: gli 11 artisti riuniti da Bartholomew F. Bland in American Dreamers, alla Strozzina di Firenze, hanno decisamente scelto il secondo.


E quando non si riesce ad allontanare il reale lo si presenta, ma reso irriconoscibile dai propri sogni, piacevoli o angosciosi poco importa.

Così avviene nel paesaggio all’ingresso della mostra, tipico della suburbia americana, con le case bianche sempre identiche e i giardini attorno perfettamente curati. Ma la pittura di Adam Cvijanovic, che pure si ispira ai quadri sublimi della Hudson River School, di quell’ottimismo e di quella incrollabile fiducia, mantiene soltanto la luce. Il suo «affresco mobile», realizzato su un tessuto facile da trasportare come il tyvek, ci racconta piuttosto cosa resta di quella terra incontaminata e di quella speranza, con le case forse abbandonate e nessuna presenza umana. Ed è ancora intorno alla casa, simbolo di protezione e rifugio, che lavora Thomas Doyle, tra gli autori più interessanti in mostra. Sono piccole villette le sue, realizzate in miniatura e sospese dentro cupole trasparenti, un pò come quelle che, quando si scuotono, lasciano cadere la neve. Nelle sculture di Doyle la neve non c'è, e piuttosto si racconta di un evento sovrannaturale pronto a travolgere la normalità dell'esistenza. Tutto crolla insomma, e quello che resta da fare è raccontare le proprie storie, il proprio mondo, magari racchiudendolo in una palla di vetro perché lo si possa ancora controllare. Bisogna che sia piccolo, miniaturizzato, com'è anche quello di Patrick Jacobs, che costringe lo spettatore a spiare, attraverso dei piccoli oblò luminosi, interni ed esterni minuscoli, come in una versione contemporanea di Alice nel Paese delle Meraviglie. Bisogna poi che il lavoro artistico sia paziente, realizzato a mano da autori che sembrano stanchi di poter essere veloci e tecnologici.

Gran parte delle opere in mostra hanno richiesto molto tempo e materiali particolari, lontani dalla tradizione, ma soprattutto lavorati direttamente dall'artista che non ha più paura di farsi percepire come un artigiano. Così le sculture di Nick Cave sono fatte di capelli, bottoni, pellicce sintetiche, persino borse e pensate per poter essere indossate come costumi. Mentre le stelle di Kirsten Hassenfeld, costruite riciclando carte per i pacchi di Natale e cannucce, appaiono come un dono, fragile e luminoso, per chi guarda. Ci sono, infine, le creature di Mandy Greer, che allestite tutte insieme creano un mondo surreale, fantastico, un passaggio dal mondo solare a quello lunare. Sono presenze teatrali fatte di tessuto, perline e un lungo lavoro manuale da realizzare insieme, per trovare nuove, vecchissime, forme di comunicazione.




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