Alla vigilia del 250mo anniversario della fondazione che ricorre il prossimo 4 luglio, gli Stati uniti sono a tutti gli effetti una nazione postdemocratica.
I primi cento giorni del secondo governo Trump sono stati un vortice di provocazioni e trasgressioni, attacchi allo stato di diritto e quello sociale, per non dire della decostruzione dell’ordinamento globale del dopoguerra. La guerra commerciale arbitrariamente scatenata prefigura il trapasso della globalizzazione e delle alleanze strategiche nel nome di una “transazionalità” in cui l’America, finalmente libera di “giocarsi le carte vincenti” e imporre tutta la forza del proprio potere, uscirà vincente da ogni negoziazione – la geopolitica come partita di poker e affare immobiliare.
Il secondo mandato Trump è caratterizzato dall’espansione smisurata dei poteri dell’esecutivo, impugnati per far fronte a proclamate immaginarie emergenze, o semplicemente presi d’ufficio. È una presidenza imperiale e patrimonialista che governa per decreto esecutivo (solo ad oggi 137). La Casa bianca ha dapprima esautorato il Congresso, appropriando per sé il potere di disporre della spesa pubblica di competenza parlamentare per andare poi, sul prevedibile terreno dell’immigrazione, allo scontro frontale con la magistratura.
Il regime ha non solo trasgredito ordini della Corte suprema, ma è passata alla fase dell’arresto “esemplare” di giudici inadempimenti da parte dell’FBI. Allo stato attuale il sistema di contrappesi della vantata “migliore costituzione” è di fatto da considerarsi inoperativo. L’ordine del giorno è il pugno di ferro. Solo ieri un nuovo decreto esecutivo ha ordinato alle agenzie federali di impiegare “ogni risorsa disposizione” contro le città santuario che si rifiutino di cooperare con le deportazioni di massa. Per marcare l’anniversario dei 100 giorni le aiuole della Casa bianca sono state adornate con 100 manifesti di immigrati ritratti come criminali ricercati, una scenografia da stato di polizia adeguata al tono machista e securitario che il governo trumpista si cura di trasmettere.
Per molti il dibattito sulle proclività autoritarie di Trump, che infuriano sin dal primo mandato (finito con l’assalto del branco trumpista al Parlamento) può ormai considerarsi concluso. La questione non è più se il paese sia avviato verso una forma post democratica ma quali siano gli indicatori specifici del definitivo incrinamento della democrazia.
In quel calcolo oggi rientrano gli immigrati messi ai ferri e deportati in lager centroamericani senza udienza o appello, i “dissidenti” caricati a forza su furgoni o prelevati a case e spediti in centri di detenzione per crimini di pensiero e di parola- l’esistenza di fatto, nella “Land of the Free” di prigionieri politici fatti sparire e confinati, le minacce ed i ricatti a chi non si sottomette, la prepotenza come cifra politica quotidiana.
Sono sempre più numerosi gli studiosi di totalitarismo che sciolgono le riserve. Ruth Ben-Ghiat della New York University, ad esempio, specializzata in storia del fascismo italiano, da tempo sottolinea i paralleli del trumpismo con i totalitarismi del ventesimo secolo e oggi afferma l’emergere incontrovertibile di un regime americano assurto come quegli antecedenti per mezzo di elezioni democratiche. Altri, come Jason Stanley, filosofo di Yale, autore di How Fascism Works ha lasciato il paese per il Canada, primo forse di un flusso di intellettuali espatriati. Marc Cooper, penna storica della sinistra West Coast, che fu traduttore inglese di Salvador Allende, da settimane fa la cronaca – su Substack – di un’insidiosa progressione in cui ravvisa elementi paralleli all’ascesa di Pinochet in Cile.
A certificare una preoccupante spirale vi è già un’ampia iconografia: immagini di funzionari statali esodati in massa, studenti arrestati da squadre in borghese, giudici in manette, stranieri terrorizzati in auto mentre agenti spaccano a martellate i finestrini per arrestarli, bambini in età di asilo soli davanti a giudici dell’immigrazione. La cronaca visiva dei soprusi è spesso diffusa dallo stesso regime che preme intenzionalmente sui i limiti costituzionali e ci tiene a diffondere il più possibile il messaggio intimidatorio, se necessario filmando video virali davanti a detenuti in celle lager off-shore – nuovi Abu Ghraib ma postati sui social in un autoritarismo performativo che si fregia del proprio bullismo.
Le crociate anti-trans e contro “l’antisemitismo” hanno resuscitato con inquietante facilità fantasmi maccartisti che avrebbero dovuto essere archiviati nei libri di storia. Questa settimana la ministra di giustizia Pam Bondi ha autorizzato gli agenti ICE (immigrazione), che seminano il panico nei barrios, a entrare e nelle abitazioni senza mandati di perquisizione. Ogni direttiva anticostituzionale ha un suo ricorso ma i tribunali sopraffatti si muovono con lentezza istituzionale. E intanto ogni fatto compiuto avrà spostato l’asticella.
La patria del primo emendamento e della libertà di parola ha ora una task force per l’antisemitismo con facoltà di presentarsi sui campus per ispezioni ed esigere documentazione e colloqui con gli amministratori. Un ennesimo decreto ha ordinato la rimozione delle “Ideologie difettose” (leggi riferimenti “disfattisti” a genocidio e schiavismo) dal museo nazionale “Smithsonian”. Dai libri di testo ai programmi di studio l’epurazione culturale è obbiettivo dichiarato di un nuovo egemonismo di destra, declinabile evidentemente con terminologia vintage-stalinista senza traccia di ironia.
In questo novero la questione diventa semmai allora determinare il punto esatto in cui la democrazia cessa di essere tale.
Steven Levitzki, autore con Daniel Ziblatt di How Democracies Die, un testo fondamentale sul moderno “degrado” democratico, ha coniato, in un lungo articolo su Foreign Affairs, il termine “autoritarismo competitivo” per definire i regimi ibridi che mantengono una normalità superficiale ma corrodono aspetti fondamentali dell’ordinamento democratico. In questo scenario la superpotenza occidentale (già in marcata discesa nelle classifiche di libertà democratica compilate da Freedom House) sarebbe avviata verso un modello “turco” o “ungherese” di democrazia apparente, in cui sussiste un’opposizione politica nominale e anche libertà per i cittadini “adempienti” ma anche una decisa repressione del dissenso.
È lo scenario Orbán (ripetutamente elogiato dagli ideologi Maga) che non prevede carri armati nelle strade né, necessariamente, l’arresto di avversari politici, ma insinua tuttavia un “grande freddo” nella vita pubblica. Nel quadro della minaccia anti democratica che grava sull’occidente, gli Stati uniti hanno doppiato con imprevista rapidità altri soggetti a rischio ed oggi si pongono come modello negativo.
In questo paradigma, secondo Levitsky, sussistono anche elezioni ma con sistemi adeguati a pilotarle – con i quali Trump ha una dimostrata dimestichezza. Tutto indica che anche a fronte dell’apparente erosione dei consensi rilevata dai sondaggi, potrebbe essere eccessivamente ottimista affidarsi ai midterm o alle prossime presidenziali per trovare una via di uscita.
Siamo lontani da una normale alternanza, questa non è una fazione che abbia intenzione di lasciare facilmente il potere e soprattutto che intende portare a termine un progetto rivoluzionario di trasformazione radicale che non contempla dibattito o compromesso. La crociata contro le università ed il progetto di decostruzione del complesso accademico-sanitario-scientifico così intrinseco all’identità ed al “brand” nazionale è un’indicazione dello zelo che sottende la coalizione che sostiene Trump.
Dietro al demagogo populista aggregatore di consensi vi sono quadri ideologici di luogotenenti effettivamente fanatici, forgiati nei think tank neo reazionari, negli ambienti fondamentalisti e nel tecno feudalesimo di Silicon Valley, dove gli aneliti reazionari sono espressi come “originalismo” che intende reinterpretare la costituzione come destino messianico degli Americani “originari.” Fra questi vi sono, per fare un elenco parziale, Stephen Miller alla pulizia etnica, Kash Patel all’FBI virato in apparato punitivo, JD Vance alla crociata anti-woke, Elon Musk alla meritocrazia ed il darwinismo sociale, Russell Vought al ridimensionamento dello stato e Chris Rufo alla purificazione ideologica di università ed istruzione pubblica.
Ogni missione è ispirata a concetti di predestinazione ed eccezionalismo che rimandano, questi sì, ad antecedenti inquietanti della storia occidentale ed a pregressi fascismi americani che non avevano tuttavia mai preso il sopravvento in modo così completo. Attorno e dietro al regime un girone di oligarchi e plutocrati che non conoscono scrupoli nell’impiegare sovranismo, xenofobia e il pretesto antisemita per istaurare una seconda “Gilded Age” e il regno definitivo del capitale in terra.
L’Economist ha definito “volubile estremismo” il programma con cui Trump ha messo in subbuglio il mondo.
Sta guidando un progetto rivoluzionario che aspira a rimodellare l’economia, la burocrazia, la cultura e la politica estera, persino l’idea stessa di Americathe Economist
Vissuta dall’interno la sensazione è quella netta di un paese ostaggio di un sovrano incostante e vendicativo, deciso a farla pagare alla metà che non lo sostiene e portato a turbe narcisistiche e megalomani.
La sopraffazione rapida dell’ancien régime burocratizzato era un fondamento esplicito del programma descritto in Project 2025, ma il successo dell’operazione ha sorpreso perfino alcuni degli autori di quel programma. La paralisi dell’opposizione politica, annichilita dalla sconfitta elettorale e del tutto impreparata a far fronte all’assalto nei termini necessari allo scontro ne ha rivelato la profonda inadeguatezza. Ma l’aspetto più sorprendente è stata la capitolazione repentina di molti settori sociali.
Gli annali futuri registreranno la sottomissione volontaria di tante istituzioni, complici o ricattate da Trump, come gli studi legali che hanno patteggiato accordi o reti di informazione come la ABC e la CBS che hanno firmato armistizi separati pur di non nuocere agli affari delle aziende madri. La capitolazione più ignominiosa rimane ad oggi certamente quella della Columbia University, arresasi incondizionatamente pur di evitare le sanzioni economiche di Trump, come un qualunque stato vassallo. Vittorie che hanno rincuorato il regime e ulteriormente depresso la parte d’America che assiste costernata alla decostruzione del proprio paese.
La scorsa settimana Trump ha annunciato che il governo cesserà di applicare il Voting Rights Act, il pacchetto di riforme che fu la conquista del movimento per i diritti civili di Martin Luther King. Il gesto è indicativo delle priorità di una destra che quella guerra civile sommersa in fondo non ha mai smesso di combatterla. L’ordine di Trump prevedeva che l’ufficio per la difesa dei diritti civili riorientasse la propria missione, dalla lotta alla discriminazione razziale a combattere le “ideologie woke”. Centinaia di avvocati del ministero di giustizia hanno però preferito dimettersi.
Nell stessa settimana si è dimesso il direttore di 60 Minutes, lo storico magazine di indagini giornalistiche della CBS. Bill Owens ha dichiarato di non ravvisare più le condizioni di autonomia necessarie a continuare eticamente il proprio lavoro. Fra le righe tutti hanno inteso era stato oggetto di pressioni della casa madre Paramount, in delicata fase di fusione con la Skydance, per non indisporre il presidente con servizi “scomodi”. Nel programma successivo l’anchorman Scott Pelley ha fissato la telecamera e lo ha detto senza mezzi termini. Intanto Harvard ha deciso di non imitare la Columbia, rifiutando le pressioni del governo per abbandonare le politiche di pari opportunità (DEI) e annunciando un ricorso in tribunale per pressioni indebite.
I sintomi di resistenza stanno ad indicare che il governo per quanto attualmente egemone, non necessariamente avrà la strada spianata per portare a termine la propria controrivoluzione. C’è la sensazione che il residuo impulso democratico, egualitario, laico e progressista del paese debba ancora essere messo del tutto alla prova. È possibile poi che i settori del capitale e della finanza “moderata” non abbiano esaurito gli strumenti di contrasto alla terra bruciata della “dottrina” Trump – almeno a giudicare dagli editoriali non certo amichevoli del Wall Street Journal. E una recessione indotta dalla guerra commerciale potrebbe saggiare la resilienza del popolo di Trump e produrre ulteriori flessioni nei sondaggi – gli unici numeri cui l’ipertrofica autostima del presidente è probabilmente sensibile.
L’ordinamento americano non prevede rimpasti di governo né decadimenti dell’esecutivo. La via di uscita dalla prima dittatura americana dovrà forzatamente coinvolgere molte forze coalizzate e un innalzamento forse drammatico dello scontro politico, quello che perfino il commentatore conservatore del New York Times, David Brooks, ha definito un necessario “sollevamento civile” con un’unica certezza: nulla potrà tornare a essere come prima.
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