venerdì 28 dicembre 2012

ROMANZIERI USA. STEFANIA VITULLI, E il fantasma degli Usa apparve a Don DeLillo, IL GIORNALE, 28 dicembre 2012

La prima raccolta di racconti di Don De Lillo, L'angelo Esmeralda (pagg. 230, euro 19, traduzione di Federica Aceto, in uscita a gennaio per Einaudi), contiene una delle più azzeccate definizioni di scrittore che sia mai stata coniata: «Nella mia preadolescenza, m'imbattei nella parola fantasma





Una gran parola, pensai, e volli essere fantasmatico, qualcuno che scivola fuori e dentro la realtà fisica». Nel volume, che contiene nove pezzi di imperdibile prosa magistrale, a descriversi così è Jerold Bradway detto Jerry, la voce narrante del racconto più scioccante ed attuale oltre che più lungo ed ultimo in ordine di tempo ad essere stato composto: Falce e martello, pubblicato, e ambientato, due anni esatti fa su Harper's Magazine. Jerry è ospite di un carcere di minima sicurezza per colletti bianchi. I crimini di cui lui e i suoi compagni sono accusati hanno quasi tutti a che fare con transazioni fraudolente. Più pecore nere di così, di questi tempi, è impossibile. Quello che tuttavia rende il racconto irresistibilmente ipnotico è un background surreale anche più “delilliano” del solito, che nulla ha da invidiare ai più recenti Cosmopolis o a L'uomo che cade o al capolavoro Rumorebianco (1985, tutti pubblicati da Einaudi).
Ogni pomeriggio, alcuni detenuti si ritrovano in uno degli stanzoni comuni dedicato alla televisione. Jerry guarda con insolita attenzione due sorelline, dieci e dodici anni, che trasmettono su un canale tematico per bambini il report quotidiano degli indici dei mercati finanziari. Dal grande schermo ultrapiatto, le voci delle bimbe declinano quelle parole che sono diventate per noi ormai sintomatiche della caduta dell'impero: «Parigi, Francoforte, Londra, Dubai», «Ribasso», «Bond islamici», «Ribasso», «I mercati affondano rapidamente», «Ribasso, ribasso, ribasso».
«Non è una follia, un report finanziario per bambini?», si chiede e ci chiede Jerry. Le bambine si sforzano di compitare educatamente e correttamente i titoli, di orientarsi in quelle parole all'apparenza incomprensibili, di seminare qualche spiegazione nella messe di tecnicismi. Fanno fatica, sono bambine. O forse sono soltanto umane. Jerry si risponde che in fondo non è una scelta di palinsesto più folle di quella di qualsiasi altro oscuro canale tematico in circolazione. Noi ci rispondiamo che quelle bambine ci guardano e ci riguardano perché, accidenti, siamo proprio noi, colti alla sprovvista come bambini da un cataclisma finanziario che ancòra cerchiamo di decifrare con i comuni, e antichi, e inadeguati, codici umani di comunicazione.
Le due bambine, due figure mitologiche, due minuscole cassandre horror, sono le figlie di Jerry, Laurie e Kate. La madre ha comunicato a Jerry, senza mezzi termini, che le bimbe sono state selezionate per il programma: «Nessun altro dettaglio disponibile al momento». Come se lei stessa fosse sotto l'occhio di un nuovo, ancor più subdolo Grande Fratello, completamente interiorizzato, fatto di ansia pura. Ansia pura è quella che coglie anche il lettore, pagina dopo pagina, mentre conosce gli altri detenuti. Uno, in particolare, Norman Bloch. Gli mancano i suoi muri.
A tutti manca la propria casa, se si trova in carcere. Ma questi erano muri speciali. La gente, collezionisti, curatori, studenti, veniva dall'Europa, da Los Angeles, persino un certo giapponese da una certa fondazione del Giappone, solo per guardare i suoi muri, stracolmi di opere d'arte straordinarie. E lo stesso Norman raramente guardava fuori dalla finestra, anche di quella casa nell'Hudson Valley in cui passava l'autunno perché lì esplode al massimo con i suoi colori. Venduti. Per pagare i debiti, le spese legali, provvedere alla famiglia. Ma Norman non è infelice in carcere, anche se passa il tempo a ricordare. In carcere non deve lottare ogni minuto per accumulare, per farsi un nome. Il carcere è la pace. Non fosse per quelle due bambine, che continuano a ripetere «Dubai».
Anche tutti gli altri racconti di L'angelo Esmeralda stanno in piena «zona disagio», ciascuno in un settore diverso, visto che attraversano quasi mezzo secolo della vita dello scrittore americano di origini molisane. Ciascun «pezzo» di questo mosaico afferisce, come ha scritto il New York Times, ad una specifica allegoria contemporanea: da Creazione, il titolo che apre la raccolta, datato 1979, ispirato all'impotenza di una coppia, confinata in un'isola tropicale a causa dell'eterno overbooking dell'aereo che li dovrebbe riportare a casa, fino al racconto che dà il titolo al volume, pubblicato nel 1994, in cui una coppia di suore volontarie e gli abitanti più reietti del South Bronx cercano il senso del sacro nell'omicidio gratuito di Esmeralda, una dodicenne homeless il cui volto appare su un muro: «Questo è reale», grida la più giovane delle suore. «Bruxelles è surreale, Milano è surreale. Il Bronx», dove De Lillo nacque nel 1936 e crebbe, undici in una casa e una nonna che non imparò mai l'inglese, «è reale».

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