venerdì 11 luglio 2014

POLITICHE ED ECONOMIA DI GUERRA. M. DINUCCI, La politica del (dis)armo, IL MANIFESTO, 1 luglio 2014

Un carico di armi chimiche siriane verrà trasbordato, domani a Gioia Tauro, dalla nave danese Ark Futura a quella statunitense Cap Ray. È l’ultimo invio, con cui la Siria ha completato il disarmo chimico, sotto il controllo dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche. Damasco ha così mantenuto l’impegno preso nel quadro dell’accordo raggiunto con la mediazione di Mosca, che aveva ottenuto in cambio da Washington la promessa di non attaccare la Siria.


Il trasferimento e la successiva distruzione delle armi chimiche siriane – dichiara la ministra degli esteri Mogherini – «potrebbe aprire scenari ulteriori di disarmo e di non proliferazione nella regione». Tace però sul fatto che, mentre la Siria ha rinunciato alle armi chimiche, Israele ha costruito un sofisticato arsenale chimico, che resta segreto poiché Israele ha firmato ma non ratificato la Convenzione sulle armi chimiche. Lo stesso ha fatto col proprio arsenale nucleare, che resta segreto poiché Israele non ha firmato il Trattato di non-proliferazione.

Tace la Mogherini soprattutto su come gli Stati uniti contribuiscono al «disarmo» nella regione: proprio mentre Damasco completa il disarmo chimico, dimostrando propensione al negoziato, il presidente Obama chiede al Congresso 500 milioni di dollari per armare e addestrare «membri opportunamente scelti dell’opposizione siriana». Tipo quelli in maggioranza non-siriani – reclutati in Libia, Afghanistan, Bosnia, Cecenia e altri paesi – che la Cia ha per anni armato e addestrato in Turchia e Giordania per infiltrarli in Siria. Tra questi, molti militanti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis), addestrati da istruttori statunitensi in una base segreta in Giordania. Nonostante che Damasco abbia realizzato il disarmo chimico, ed emergano altre prove che ad usare armi chimiche in Siria sono stati i «ribelli», Washington continua ad armarli e addestrarli per rovesciare il governo siriano.

Emblematica la dichiarazione del summit G7 a Bruxelles, che riflette la politica di Washington. Senza dire una parola sul disarmo chimico siriano, il G7 «condanna la brutalità del regime di Assad, il quale conduce un conflitto che ha ucciso oltre 160mila persone e lasciato 9,3 milioni in necessità di assistenza umanitaria». E, definendo false le elezioni presidenziali del 3 giugno, sentenzia che «non c’è futuro per Assad in Siria». Loda allo stesso tempo «l’impegno della Coalizione nazionale e dell’Esercito libero siriano di sostenere il diritto internazionale», mentre «deplora» il fatto che Russia e Cina hanno bloccato al Consiglio di sicurezza dell’Onu una risoluzione che chiedeva il deferimento dei governanti siriani alla Corte criminale internazionale.

Sono dunque chiari gli obiettivi di Washington: abbattere il governo di Damasco, sostenuto in particolare da Mosca, e allo stesso tempo (anche tramite l’offensiva dell’Isis, funzionale alla strategia Usa), deporre il governo di Baghdad, distanziatosi dagli Usa e avvicinatosi a Cina e Russia. O, in alternativa, «balcanizzare» l’Iraq favorendone la divisione in tre tronconi. A tale scopo Washington invia in Iraq, oltre a droni armati che operano dal Kuwait, 300 consiglieri militari con il compito di costituire due «centri di operazioni congiunte», uno a Baghdad e uno in Kurdistan.

Per condurre queste e altre operazioni, definite ufficialmente di «controterrorismo», la Casa bianca chiede al Congresso fondi aggiuntivi: 4 miliardi di dollari per il Pentagono (soprattutto per le sue forze speciali), un miliardo per il Dipartimento di stato, 500 milioni per «situazioni imprevedibili». In realtà facilmente prevedibili.
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