martedì 29 luglio 2014

SCONTRO USA- REGNO UNITO SULLA TASSAZIONE. R. RICCIARDI, Regno Unito, smacco fiscale a Obama: Usa in rivolta contro la fuga delle aziende, LA REPUBBLICA, 29 luglio 2014

MILANO - "Una volta l'America combatteva la Gran Bretagna per non pagarle le tasse. Ora le aziende Usa si spostano in massa verso il Regno Unito, per pagare le loro tasse". Con questo pardosso il Wall Street Journalpunta il dito contro la tendenza delle grandi Corporate a stelle e strisce a cercare di spostare la residenza fiscale alla Corte della Regina Elisabetta, dove possono contare su una tassazione più benevola. Una prassi che abbiamo iniziato a conoscere bene anche in Italia, dove le (poche) grandi aziende presenti hanno cercato di concludere deal in grado di portare la loro imposizione lontano dai confini nazionali, e guardacaso proprio a Londra e dintorni. E' accaduto con Fiat, sta accadendo con Gtech (la ex Lottomatica).


Il processo di "inversion", come lo chiamano negli Usa, è uno dei trend scottanti del momento: si pensi al tentativo (fallito) di Pfizer di prendersi AstraZeneca o a quello riuscito di AbbVie sull'irlandese Shire. In sostanza la compagnia Usa ne compra una straniera, magari proprio nel Regno Unito, in Irlanda o in altro Paradiso fiscale, in caccia di sinergie industriali ma soprattutto di un gancio al quale "attaccare il proprio cappello fiscale". Una volta completato il deal, trasferisce la sede in Uk e si gode il minore tax rate, cioè l'incidenza del prelievo erariale sulla base imponibile.

I requisiti per essere considerati una compagnia dal domicilio fiscale britannico non sono poi così difficili da centrare: bisogna tenere un buon numero
di riunioni del board nella City, far domiciliare alcuni consiglieri, avere una struttura stabile e dimostrare che da lì vengono prese le decisioni strategiche rilevanti per il gruppo. La rete di servizi che Londra è in grado di offrire, la comunione della lingua e la garanzia di entrare a far parte di una delle principali Piazze finanziarie del mondo fanno il resto nell'agevolare la scelta dei colossi Usa. Tanto che ormai molte aziende preferiscono il Regno Unito anche all'Irlanda, che pure è ancora più favorevole nella tassazione: nell'ultimo anno e mezzo negli Usa si sono censite 20 "inversioni" e in otto casi la meta è stata proprio la Gran Bretagna. 

Ora anche la Casa Bianca e le alte sfere della politica Usa sono preoccupate. Il segretario al Tesoro Jacob Lew ha puntato il dito contro l'inversion nel suo ultimo discorso al Congresso. Per Lew il risparmio fiscale delle grandi compagnie è stato finora di 1 miliardo di dollari l'anno, con un impatto sul budget federale che arriva a 3,8 miliardi. Ora Lew vuole rendere la procedura più complicata, e soprattutto farlo in maniera retroattiva. In particolare, dovrebbe salire la quota dell'azienda Usa che passa a quella straniera per permettere il trasferimento di domicilio. Oggi deve passare alla società "target" di acquisizione il 20% della società Usa, per poter poi quest'ultima cambiare residenza. In futuro potrebbe essere "almeno il 50%": in pratica, anche dal punto di vista del capitale sarà richiesto l'effettivo spostamento fuori dai confini americani. Lew ripercorre così l'ammonimento di Obama, che ha accusato le compagnie che hanno sfruttato le Università, le leggi, la protezione di Washington di "rinnegare" la loro cittadinanza Usa: "Non mi importa se è legale, è sbagliato", ha detto il presidente.

D'altra parte, non manca chi sottolinea quanto sia punitiva la situazione per le imprese degli Stati Uniti. La tabella di seguito mostra la differente situazione tra i principali Paesi Ocse, con la fotografia a inizio millennio, prima della crisi e oggi. Si vede come la Gran Bretagna e l'Irlanda abbiano operato la scelta di tagliare l'incidenza e così attratto aziende. Per altro, si tratta di dati parziali. Se si guarda ad altre classifiche che ampliano la considerazione dell'imposizione includendo contributi e vari balzelli di altra natura, come quella del Doing Business, l'Italia emerge come maglia nera (138esima su 189 Paesi osservati) con una pressione sulle imprese che supera il 65%. Anche in quel caso, comunque, il Regno Unito brilla per convenienza: al corporate tax rate mostrato in tabella unisce solo una decina di punti percentuali di contributi e affini. Alla fine, il total tax rate è del 34%, ben sotto la media Ocse del 41,3%. Discorso ancora più estremo a Dublino: al 12,5% di imposizione per le società si unsice poco più del 10% per la previdenza, con una pressione fiscale definitiva del 25,7%.




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