domenica 27 novembre 2011

CINEMA. SCORSESE E LA MAFIA. SAVIANO R., Nei film di Scorsese la mafia che conosco, LA REPUBBLICA, 27 novembre 2011


L'autore di "Gomorra" parla del regista in occasione dell'uscita della sua autobiografia. "Né inni ai mafiosi, né condanne moraliste. Solo il nudo racconto della vita così com'è"

di ROBERTO SAVIANO


Parlare di Scorsese è come avvicinarsi a un mondo impossibile da ridurre a sintesi. Perché se ha raccontato come nessuno l'America degli immigrati italiani (lui, figlio di figli di immigrati) è forse uno dei più grandi innamorati di New York, affascinato dalla sua frenesia centrifuga in grado di raccontare gli elementi universali di una vita.

I mafiosi di Scorsese sono raccontati nelle loro vite, più che nelle loro gesta. I comportamenti, le amanti, i vestiti e gli sguardi, gli orologi, i club, i ristoranti. Le stanze che che spuntano sempre nei retrobottega. Nei film di Scorsese, nei suoi documentari c'è tutto: musica, guerra, narrazione criminale, costruzione di comportamenti. E' un regista che ha battuto talmente tanti sentieri che non può non essere toccato dalla solita accusa rivolta a chi racconta la vita, quella di strada: che con quei film si condizionano i comportamenti.

Scorsese ci racconta la vita di quegli immigrati che, dopo generazioni, ancora portano l'accento italiano nel loro inglese e ancora si definiscono italiani anche se non l'hanno mai vista l'Italia. Con la trilogia Mean Streets (1973), Quei bravi ragazzi (1990) e Casinò (1995) non ha voluto costruire la mitologia del mobster, del mafioso. Un'epica positiva dell'antieroe. Ha semplicemente voluto raccontare la vita così com'è, come lui la percepisce e la vive, senza porsi limiti. Ho sempre creduto che un regista, un narratore, debba raccontare, fare arte, senza avere la presunzione di

educare. Del resto, se prescindiamo da quelle critiche sterili che mai hanno fatto del bene all'arte, non esistono film che educano al bene e film che educano al male, ma solo film di buona qualità e film di cattiva qualità. L'emulazione e la mistificazione sono sempre esistite e se i film sono prodotti culturali di massa e quindi facilmente individuabili come responsabili di determinati comportamenti, nei secoli non possiamo ignorare che Goethe e Foscolo furono criticati per aver suggerito il suicidio a molti ragazzi delusi da politica e amore. Che Wagner, Nietzsche o Tolkien siano stati - in maniera diversa e in epoche diverse - accusati di aver aderito o ispirato teorie naziste.

Ma sono altre le dinamiche che portano a compiere gesti estremi, non guardare un bel film o leggere un buon libro. Del resto, questo grado di empatia tra film e società credo sia ascrivibile alla potenza che Scorsese ha nel mostrare come le vite dei gangster non siano poi così diverse dalle vite di noi comuni mortali. L'alchimia nei film di Scorsese è proprio questa: raccontare il quotidiano, il percorso di tutti i giorni di queste persone, un percorso che si intreccia con i nostri percorsi. Il fascino nasce dal cortocircuito dell'inesistenza, in quei percorsi, del limite. I criminali sembra possano tutto. E poi, presto, pagheranno tutto. Il loro essere cafoni, spesso cialtroni e ridicoli è un aspetto umano. Quei bravi ragazzi e Casinò sono entrambi tratti dai romanzi di Nicholas Pileggi, romanzi in cui lo scrittore descrive come l'atteggiamento paesano che i nipoti di italiani assumono nelle metropoli americane diventino atteggiamenti vincenti che mettono paura e creano soggezione nella comoda comunità Wasp trincerata dietro le sicurezze di un lavoro certo, ma monotono e noioso. Si crea epica perché si raccontano le gesta di persone senza limiti. E quell'assenza di limiti affascina. Non si può negare, e constatarlo non significa aderire al crimine. Il documentario Italoamericani (1974) è un capolavoro in cui Scorsese racconta di sua madre e suo padre, di come vivevano. È la dimostrazione di come non gli stia a cuore solo l'aspetto criminale connesso alla presenza di immigrati italiani in America, ma di come tenda anzi a decostruire i preconcetti che li riguardano. Troppe volte in un cognome italiano echeggia per chi l'ascolta negli Stati Uniti un fascino esotico legato all'immaginario criminale. La comunità italoamericana ne è infastidita, ma non è con il silenzio che si risponde al pregiudizio. È raccontando che dimostriamo di essere altro dalle mafie. Nel 2010 un rapper siciliano, Izio Sklero, in un testo - Tu Vò Fari u Siciliano - racconta di come si sfrutti il mito della mafia per sembrare più cattivo e di come ci si dia l'aria da meridionale, magari usando lo slang per intimidire chi crede che Al Pacino sia un altro boss siculo. Ma non c'è imitazione che tenga, a quel mondo o si appartiene o non si appartiene. I boss oggi parlano in italiano, hanno studiato, sono persone curate, dai bei fisici e dall'aspetto gradevole.

Quindi guardiamo all'arte come a uno specchio della vita senza eccessivi moralismi. Non sono i film di Scorsese o di Coppola, non è Scarface o Al Pacino, Joe Pesci o Robert De Niro a plasmare la realtà che ci circonda. Quando la maggiore economia del mondo è quella criminale, accade che questi film smettano di essere solo racconti di una parte del mondo. Scorsese non sta solo parlando a te, spettatore che guardi i suoi film. Sta parlando di te. Del resto Martin Scorsese è quello che nel 1986 gira il videoclip di Bad e che riguardo a Michael Jackson ha detto: "L'esibizione che fece al Motown 25: Yesterday, Today, Forever è stata la cosa più bella che io abbia mai visto. Era così semplice, così pura, ballava da solo in scena". Sì, questo è Scorsese.

(27 novembre 2011)

Nessun commento:

Posta un commento